Foto di Dino Ignani

 

Raffaela Fazio, appassionata di iconografia cristiana, poetessa e traduttrice, si occupa da anni di questi settori culturali intrecciandone a volte motivi e temi all’interno di una visione unitaria. L’abbiamo intervistata per capirne di più.

L’iconografia può essere sommariamente definita come l’insieme dei motivi che rendono conto delle immagini artistiche inquadrate su un piano eminentemente culturale, come testimonianza e fonte storica, ma anche come symbolon di un contesto di significati di cui l’immagine rappresenta, in sé, il significante.  L’iconografia, in particolare l’iconografia cristiana delle origini, è un tuo campo di studio e di interesse da molti anni. Puoi raccontarci come è nata questa passione?

Diciamo che questa passione è nata dalla combinazione di una circostanza esterna e di una propensione interna. La contingenza esterna è stata il mio trasloco a Roma, vent’anni fa. Dopo dieci anni di vita all’estero ˗ in Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera e Belgio ˗, anni che potrei definire di formazione per più di un motivo, il rientro in Italia è coinciso con l’approdo a una città che non conoscevo bene, e a un ambiente professionale abbastanza estraneo sia al mio background che alle mie abitudini. Non è stato un momento facile. Ma, come avviene proprio in situazioni di tensione, ci si rimbocca le maniche alla ricerca di ciò che è stimolante: you make the most of it. Se, da un lato, a Roma mi mancava la vivacità internazionale sperimentata fino ad allora, dall’altro la “città eterna” mi offriva un’opportunità unica: il recupero di buona parte delle nostre radici culturali. In nessun altro luogo si può esperire sensorialmente, in maniera così vivida, lo stratificarsi del tempo e delle sue forme visibili. In particolare, Roma permette di scoprire il passaggio, assolutamente fluido (per quanto se ne dica, parlando in toni accesi di imperatori che facevano divorare i cristiani o di cristiani intolleranti verso tutti gli altri), tra pensiero pagano e pensiero cristiano. È proprio questo che mi ha interessato: vedere e capire come qualcosa si sia immesso in qualcos’altro, nutrendone lo sviluppo, per somiglianza o per contrasto. L’arte figurativa è il “volto” tangibile di questo processo (non a caso Face of Faith si chiama la mia guida del 2011 sull’iconografia dei primi secoli cristiani). A Roma ci sono siti e musei con reperti e testimonianze iconografiche di un’importanza straordinaria: la necropoli vaticana e le varie catacombe (III-IV secolo), le domus romane del Celio (IV secolo), il mausoleo di Santa Costanza (IV secolo), la basilica di Santa Pudenziana (IV-V secolo), la basilica di Santa Maria Maggiore (V secolo), la basilica di Santa Sabina (V secolo), Santa Maria Antiqua (VI secolo), il Museo Pio-Cristiano all’interno dei Musei Vaticani, gli scavi a Ostia, la necropoli di Fiumicino, ecc. Ma, come accennavo all’inizio, la mia passione per l’iconografia (o, secondo alcune definizioni, dovrei dire soprattutto per l’ “iconologia”) si innesta su un’inclinazione personale: il gusto di leggere la realtà come una grande “foresta di simboli”, attraverso i quali è possibile scoprire il “nuovo” anche dentro il “vecchio”, percependo il tessuto connettivo che unisce ogni cosa, senza annullare la specificità del singolo dettaglio. Guardare un’immagine che si pensa di conoscere credendola addirittura scontata, e scoprire che dietro e dentro quell’immagine c’è molto di più: da lì si ramifica un gioco di accostamenti e di richiami, che non necessariamente “spiega” i congegni nascosti, ma “dispiega” possibilità interpretative prima insospettate. Da sempre credo che l’esperibile, ovvero ciò che viene offerto ai nostri sensi non solo dalla natura ma anche dall’arte, contenga un mistero, un mistero che può essere indagato fino a un certo punto, e che poi va assaporato come tale. Come in molte persone (immagino), in me convivono la parte razionale/perlustratrice, che tenta di andare al fondo delle cose, e la parte meramente estetica, che si abbandona a un sentire più fluido e istintivo. Da questa duplice natura deriva un duplice approccio, che è presente anche nel modo in cui mi dedico ai miei interessi, tra cui, appunto, l’iconografia/iconologia.

Inevitabilmente, parlando di iconografia più specificamente paleocristiana, sorge la necessità di analizzarne le forme e i contenuti alla luce di un approccio metodologico ben preciso. Quale modalità ermeneutica prediligi?

Per comprendere il significato di un’immagine occorre partire dalle singole parti. E per capire un dettaglio, bisogna innanzitutto identificarlo, stabilire cioè di quale personaggio si tratta, di quale oggetto o di quale gesto. Per farlo, è necessario conoscere i “linguaggi” usati, che dipendono dal periodo storico e dal riferimento culturale. Ad esempio, sapere che nell’arte paleocristiana gli angeli erano spesso rappresentati senza ali, ne facilita il riconoscimento. Lo stesso dicasi per gli attributi iconografici dei santi, che sono “spie” essenziali per la loro individuazione. Anche la posizione delle dita di una mano può essere rivelatrice. Si pensi semplicemente al “gesto di potere”, ereditato dall’iconografia pagana (braccio destro disteso e palmo della mano aperto verso l’osservatore) o al “segno loquendi” (con pollice, indice e medio distesi), che all’inizio indicava semplicemente il fatto di parlare e poi assunse altri significati, come riferimento a una benedizione o alla natura trinitaria di Dio. Una volta messo a fuoco il dettaglio, lo si legge in maniera correlata come parte di un insieme. La sua contestualizzazione permette un ulteriore passo avanti, consente ad esempio di far affiorare il valore simbolico di una figura o di una scena. Naturalmente vanno considerati il luogo e la destinazione dell’opera d’arte, ad esempio se essa s’iscrive in un contesto funerario (sarcofagi, affreschi di catacombe), monumentale (mosaici absidali, elementi architettonici come amboni e capitelli, affreschi su facciate o navate), liturgico (croci, calici, ecc.), privato (dipinti, cofanetti, ecc.). L’obiettivo è chiaramente avvicinarsi il più possibile al messaggio complessivo che l’immagine intende veicolare. Parlando in maniera specifica del campo di cui mi sono maggiormente occupata, va detto che nell’arte cristiana dei primi secoli non conta l’estro dell’artista o la sua storia personale, ma il sistema di codici usati. L’arte dei primi cristiani, infatti, non era l’espressione di un’ispirazione personale, ma il supporto visivo di una fede che andava delineandosi, in una società in cui i valori fondanti erano la religione, la comunità e l’autorità. Per comprendere l’arte di quel periodo è dunque essenziale conoscere i punti cardinali della fede cristiana, le sue svolte, il suo modo di rapportarsi con le culture che ne hanno permesso lo sviluppo, ovvero quella ebraica e quella greco-romana. Il materiale su cui basarsi è pressoché infinito. Tra le fonti scritte, ovviamente l’Antico Testamento, i Vangeli canonici e i Vangeli apocrifi, i commenti dei Padri della Chiesa, gli scritti di autori pagani ed ebrei, i vari Concili della Chiesa, ecc. Ma tra le risorse a cui attingere ci sono anche le pratiche cultuali e liturgiche, la mitologia greco-romana, l’iconografia preesistente, i bestiari con le loro relative simbologie. Da un lato, in questo processo di decodificazione dell’arte paleocristiana, poiché si escludono i fattori soggettivi e biografici dell’artista, la lettura può essere più semplice. Dall’altro, si tratta di fare un grande salto a ritroso nel passato, risalendo a un’epoca molto diversa dall’attuale e a una sensibilità a noi abbastanza estranea, che richiede forse un maggiore sforzo di comprensione. Questo sforzo che parte dall’inizio è comunque gratificante, perché facilita il riconoscimento di archetipi, motivi e temi che saranno utilizzati anche in seguito nell’arte religiosa, e permette di gustarne l’evoluzione, conformemente ai vari mutamenti storici e culturali.

La materia biblica o religiosa è presente anche nella tua poesia. Hai pubblicato recentemente la raccolta Midbar (Raffaelli Editore), in cui l’argomento biblico è lo spunto che connette le storie e le figure dell’Antico Testamento. Ce ne spieghi suggestioni e motivazioni?

Una piccola osservazione iniziale: se si esclude Midbar, di cui parlerò tra un attimo, nella mia poesia non è presente la “materia religiosa”. Direi piuttosto che la mia scrittura è animata da una tensione verso l’indicibile, nella coscienza che ogni parola è insufficiente, per fortuna, e va curata proprio per questa sua incompletezza di fondo, va presa come un possibile scorcio su una realtà che rimane indefinibile, mai interamente com-prensibile, essendo il nostro sguardo parziale e condizionato. Questa tensione è esistenziale, non religiosa. Non è una fede dogmatica che la spinge, ma il gusto della riflessione sovversiva, che si esprime non tanto in una forma linguistico-sperimentale, ma in uno sforzo di liberare contenutisticamente il quotidiano da eventuali patine di banalità. Potrei al massimo optare per l’aggettivo “spirituale”, se per spirituale si intende non il meta-sensibile ma l’iper-sensibile, non la fuga estraniante ma il potenziamento, il risveglio della vena pulsante nella realtà (non al di là di essa), di quel luogo al contempo irraggiungibile e familiare ˗ perenne altrove che dimora dentro le cose e dentro di noi. Lo spirituale così inteso non è un semplice rimando all’invisibile che ci sovrasta o che si rende tangibile nel contingente; è piuttosto un’apertura dell’esperibile a ciò che è esperibile diversamente, più intensamente. Il risultato è lo stupore, e spesso l’inquietudine. Il poeta ha sempre bisogno di stupore, ma non può andarne a caccia. Può però allenare lo sguardo e curare quell’attenzione tanto cara a Simone Weil, che nei suoi Quaderni appuntava: “Considerare sempre le piccole cose come una prefigurazione delle grandi; si evita così sia la negligenza, sia la pignoleria”. L’attenzione dello sguardo agisce anche sul tempo, impedendo tanto la frenesia, ovvero l’accelerazione nevrotica verso una meta troppo lontana, quanto lo stallo inerte, ovvero la stasi indistinta priva di senso e di direzione. Il tempo è imprescindibile per chi scrive. Dunque anche io, come altri, ho molto riflettuto sul suo valore, come ad esempio nella mia raccolta L’ultimo quarto del giorno. Ecco, penso che tutto questo sia la “materia” presente nella mia poesia. Un caso a parte è Midbar, che si ispira specificatamente a figure e narrazioni veterotestamentarie. Il mio interesse per lo studio delle Scritture non è dissimile dal mio interesse per l’iconografia/iconologia. Anche qui, si tratta di “decodificare” un linguaggio e di ripescarne la novità, superando ciò che si dà troppo spesso per scontato. Un esercizio di riavvicinamento a testi classici, sia personale che attualizzante, lo avevo già tentato con Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press 2017), che riprende figure femminili della mitologia greco-latina. Nella mia lettura (e rilettura poetica) dell’Antico Testamento mi sono basata non solo sull’esegesi tradizionale cristiana, ma su quella che considera la tradizione ebraica come un punto di partenza e di riferimento irrinunciabile. Quello che mi premeva era riproporre spunti scritturistici che mettono in evidenza la dimensione realmente umana della persona, le sue contraddizioni e le sue speranze, la sua miopia e il suo desiderio di affrancarsi da ciò che la rende schiava. Come ho ricordato altrove, vari personaggi biblici mi hanno attratta, alcuni come archetipi, ovvero esemplificazioni di aspetti di un immaginario più o meno universale, altri come figure aventi una storia specifica particolarmente toccante, altri ancora come destinatari di un messaggio che può offrire una verità umana, prima ancora che spirituale. L’esempio che mi piace fare spesso è quello della “legatura” di Isacco. In questo racconto, non ho optato per l’interpretazione più comune secondo la quale il sacrificio suggerisce simbolicamente la rinuncia a una paternità troppo possessiva, ma mi sono ispirata ad alcuni commenti ebraici: Abramo e Isacco rispecchiano due sefirot complementari e necessarie (le dieci sefirot sono i canali dell’energia divina), rispettivamente chesed, l’impulso dell’amore irrefrenabile, e gevurah, la tendenza al contenimento. Anche la figura di Miriam, sorella di Mosé e Aronne, può essere letta simbolicamente, come principio vitale collegato a diversi episodi salvifici. Nell’Haggadah ebraica, c’è un midrash noto come “il pozzo di Miriam”. A Miriam si riconosce il merito di far in modo che al popolo, durante gli anni di permanenza nel deserto, non manchi mai l’acqua. Secondo la tradizione talmudica, il suo pozzo è una sorgente d’acqua errante che appare miracolosamente e poi scompare. Nel pozzo, le acque del cielo si congiungono a quelle della terra, come le forze razionali si uniscono a quelle istintive. La parola ebraica “maim” (acque), così come il nome “Miriam”, inizia con una “mem” aperta e finisce con una “mem” chiusa, quasi a suggerire l’apertura del pozzo che accoglie ciò che viene dall’alto e la sua chiusura in basso quale serbatoio che raccoglie e preserva.

Ti occupi per lavoro di traduzione specializzata. Vorrei che tu spiegassi ai lettori la tua impostazione traduttoria, il tuo concetto di traghettamento linguistico.

Tutti i traduttori concorderanno sul fatto che occorre disciplina, pazienza, una buona dose di umiltà e la coscienza che il risultato non sarà mai del tutto compiuto, perché non esiste una corrispondenza totale tra due sistemi di pensiero e di espressione: è inevitabile perdere qualcosa per strada. Essendo la traduzione il mio lavoro da anni ˗ attualmente in campo teologico/ecclesiale, da giovane nell’ambito delle istituzioni europee ˗, sono abituata a uscire dai miei panni e a ricercare sia le intenzioni dell’autore (ovvero il concetto che vuole trasmettere e l’effetto che desidera produrre), sia il contesto proprio al fruitore del messaggio tradotto, prima di traghettare il tutto da una sponda all’altra. Fermo restando che la fedeltà all’originale è il presupposto imprescindibile, ci sono libertà diverse che si possono prendere a seconda della natura di un testo: documento dottrinale, rapporto di attività, articolo di giornale, comunicato stampa, omelia, istruzioni interne ad organi ed istituzioni. Le mie lingue di lavoro sono francese, inglese e tedesco. Ciascuna è specchio di una forma mentale e culturale con la quale sarebbe importante familiarizzarsi vivendo nel paese dove la lingua è parlata, in modo da immergervisi a trecentosessanta gradi. La comprensione dei codici espliciti e dei riferimenti impliciti della lingua straniera, delle sue sfumature espressive e del suo substrato concettuale è il punto di partenza. Ma altrettanto importante in una traduzione è la padronanza della propria lingua, cosa che sembra scontata ma non lo è, soprattutto per chi non è del mestiere e crede che basti conoscere le lingue di riferimento per essere un bravo traduttore. A ben vedere, se dovessi usare un’immagine per descrivere una buona traduzione in senso generale, non sarebbe in realtà quella di chi traghetta qualcosa da una riva all’altra, operando come una trasformazione magica della cosa stessa; penserei piuttosto a chi si immerge in acque straniere e cerca di capirne gli effetti sulle persone che in tali acque nuotano da sempre, poi riemerge e, tornando a casa, si sforza di creare un ambiente che produca le stesse sensazioni, con le risorse trovate sul posto.

La Fazio poetessa è caratterizzata sul piano formale da una versificazione piana, tersa e dedita alla brevitas, che però appare ricolma, sul piano del contenuto, di una potente densità concettuale e immaginifica. Ciò si evince in tutto il tuo percorso poetico, dalle prime prove alle ultime raccolte (in particolare L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni 2015), e L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice 2018). Di recente, hai tradotto le poesie d’amore di Rilke che usciranno in Silenzio e Tempesta, volume a tua cura di imminente pubblicazione per Marco Saya Edizioni, seconda uscita della collana La costante di Fidia che dirigo personalmente. Sarei curiosa di sapere quanto il tuo stile e la tua poetica influenzano la tua attitudine traduttoria.

Non direi che il mio stile poetico influenza il mio approccio alla traduzione letteraria, perché la fedeltà al testo originale non dovrebbe a mio parere consentire trasposizioni personali e innesti di stile proprio. Però, quando si tratta di tradurre versi, la creatività personale è certamente più sollecitata, è indispensabile. In questo senso, lo scrivere poesia mi aiuta, perché conosco gli escamotages linguistici di cui il traduttore ha bisogno a livello di ritmo e di costruzione del verso, affinché il pensiero trovi una forma esteticamente soddisfacente. L’orecchio sensibile alla musicalità e la capacità sintetica di espressione sono essenziali se si vuole evitare la trasposizione prosaica di una poesia. Forse, scrivendo io stessa, mi è anche più facile intuire le intenzioni del poeta che devo tradurre (ad esempio se usa un termine più per il suo suono, per la sua forza evocativa o per il concetto che veicola). La traduzione poetica lascia comunque al traduttore un margine più ampio di scelta, e questo la rende più interessante (oltre che più difficile), perché entra in gioco in misura maggiore un tipo di sensibilità più sottile. Ho menzionato la parola “scelta”. Ogni traduttore opera scelte, sapendo di dover rinunciare a qualcosa, e impegnandosi a rimanere coerente con la propria linea. Il fatto che sia non solo legittimo ma auspicabile proporre nuove traduzioni di un testo dipende dalla “non perfezione” di qualsiasi traduzione. L’importante, a mio parere, è contribuire con qualcosa di originale, che potrà essere parimenti valido rispetto a ciò che già esiste, ma avrà il merito di aprire scorci inediti di lettura.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Che cosa bolle in pentola?

All’inizio dell’anno prossimo usciranno due raccolte di poesia: Tropaion, che prende le mosse da un periodo vissuto come un “campo di battaglia”, se ne distanzia e apre una riflessione più generale sull’indispensabile coesistenza di elementi opposti nella vita, in senso eracliteo, e A grandezza naturale, che raccoglie le riscritture di vecchie poesie ormai introvabili, composte in un arco di tempo decennale. Ho in cantiere anche una plaquette, questa volta ispirata a vicende esterne e, dunque, di natura meno lirico-personale, e un’altra traduzione poetica, non più dal tedesco ma dall’inglese. Ma come la fame vien mangiando, così i progetti vengono vivendo. Una cosa è certa: dopo anni in cui, per motivi non solo caratteriali ma organizzativi, ho vissuto la mia passione per la scrittura perlopiù in privato, adesso non vorrei rinunciare a un piacere scoperto di recente, ovvero allo stimolo nato del confronto più diretto con persone che condividono i miei stessi interessi. Spero solo di avere abbastanza energie per giostrare il quotidiano… soprattutto quello più prosaico!

*

Ci unisce
la materia
libera coerente nel passaggio
tra i suoi stati
indifferente si direbbe ai nomi
agile docile alle circostanze.
Così la vera scienza
sarebbe casomai capire
se amore sia sostanza
uguale
sulle cime e in un cratere
tra i pori di una foglia e a mezz’aria
oppure
se sia forma
che divide e in sé si spezza
si staglia come neve lago nube
e bella non condona
nell’altro e nell’altrove la bellezza.

(da L’arte di cadere, Biblioteca dei Leoni, 2015)

*

Nella vita pare che tutto
vada restituito.
Il crollo del corpo
alla sua lievità
il dolce di un labbro
alla prima matrice
il fuoco guerriero
al fodero di pace
la bellezza (sempre)
all’alterità
la verità di un’arte
all’insieme e l’insieme
alla più piccola parte.
Va riportata
ogni prova di amore
al mistero
e lasciata
fuori dall’inventario
una cosa soltanto
un fendente di gioia
assoluta insolente
non necessaria.

(da L’ultimo quarto del giorno, La Vita Felice 2018)

*

Artemide

Temono
la freccia che non sbaglia
la freddissima briglia
che sciogli al rancore
la tua perfezione

perché a nessuno
appartieni e nessun occhio
ti cattura
sfuggente
come cerva o lepre o quaglia.

Ma non sanno

del fuoco quando miri
unita intimamente al tuo bersaglio

della ridente cura
per le compagne ninfe
che sorvegli
giovane linfa agli anni

né del notturno passo
quando erri
nel tuo regno selvaggio
e arresa alla luna
ti perdi
oltre lo sguardo.

(da Ti slegherai le trecce, Coazinzola Press 2017)

*

Moriah

“Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò su Isacco suo figlio, e tenne in mano il fuoco e il coltello, e camminavano tutti e due insieme” (Gn 22,6).

Due ombre.
Ciascuno la sua lotta.

Mi ama
il primo come fiamma
ma a volte è nero incendio
nello scontro
col mio soffio
e se non gli rispondo.

Mi teme
il secondo, si riduce
gli basta
il peso della legna sulle spalle
l’ubbidienza.

Al primo insegno il freddo
del coltello
la pausa, il mio mistero

all’altro
il bisogno dell’istinto
il sentimento vivo
nella legatura
più ribelle.

Io voglio ardore e freno
insieme
in ogni uomo

un passo
che tra i due oscilli
nel salire
e mentre torna a valle.

(da Midbar, Raffaelli Editore 2019)

 

Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, ha trascorso dieci anni in vari paesi europei prima di stabilirsi a Roma, dove lavora come traduttrice dal 2000. Laureata in lingue e politiche europee all’Università di Grenoble, si è poi specializzata presso la Scuola di Interpreti e Traduttori di Ginevra. In seguito, ha conseguito un Diploma in Scienze Religiose e un Master in Beni Culturali della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel campo dell’iconografia, ha pubblicato Face of Faith. A Short Guide to Early Christian Images (2011). È autrice di vari libri di poesia. Tra gli ultimi: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015); Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017); L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018); Midbar (Raffaelli Editore, 2019). Di prossima pubblicazione Silenzio e Tempesta (Marco Saya Edizioni), traduzione di poesie d’amore di Rainer Maria Rilke, Tropaion (Puntoacapo Editrice) e A grandezza naturale 2008-2018 (Arcipelago Itaca).

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