da Q. e l’allodola (Mursia 2018)

Sai, Queneau, in quelle notti, quando sento affievolirsi il battere ossessivo della mente, mi inoltro nel silenzio che mi abita per cercare un’orma, un segno, una traccia del passaggio della mitica creatura senza nome così ignota e misteriosa che si dice sia dovunque e che noi per convenzione definiamo “la poesia”, ma nel silenzio è solo una chimera, un essere
tra i tanti immaginari che affollano la nostra fantasia e quella infaticabile di Borges, perché la sua materia è la parola e a tutto l’indicibile, al non detto, a tutto l’invisibile in cui credo può dare forma solo la parola, in lei si manifesta la poesia, e dunque non è altro che un linguaggio, come Raboni aveva teorizzato, ma non nell’accezione del Tractatus, ovvero
la raffigurazione logica del mondo, per Wittgenstein l’identità con il pensiero che esprime con le sue proposizioni i fatti di cui il ondo si compone, lo so, Queneau, il linguaggio si avvale del pensiero razionale, ma mi auguro tu possa convenire che c’è un’origine, una fonte e la sorgente è un nucleo preverbale permeato dalla trama del mistero
che lega insieme tutto l’esistente e partecipa alla formazione del linguaggio, natura naturante di poesia, e si potrebbe quindi definire il linguaggio poetico la rappresentazione dinamica del mondo, un moto dell’irrazionale che nel suo evolversi costante confluisce nell’esperienza sensibile aprendo nuovi varchi e generando un’altra visione del reale,

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Queneau, da quando Carolina è andata via ci ritroviamo nella solita cucina dove celebro il mio essere sospeso tra il sublime e l’ordinario, in quello spazio tra la provvisorietà terrena e la dimensione eterna di cui, richiamando il metaxu platonico, parla Adam Zagajewski (forse la poesia nasce proprio in quel luogo di confine dove l’umano non è più
troppo umano e il divino è solo atteso, un semplice presagio è in quella regione sospesa che le immagini si fondono al pensiero e lo spirito si unisce alla materia dando vita alla poesia), allora dalla cucina le indico le vaghe stelle dell’Orsa e gli altri corpi celesti che appaiono ogni sera tra i libri che custodisco in questa casa come un guardiano della
soglia verso quella dimensione silenziosa che è da sempre l’esatta misura del mio mondo, ma sapessi, Queneau, come è faticoso estrarre dalle vene sotterranee le parole che servono per dare forma alla mia vita, come è doloroso l’obbligo di dire perché abbia consistenza questo esistere, per essere nel tempo, rimanere, e doloroso è anche scrivere
poesia, terribile ossessione che batte senza tregua nella mente e piega le ginocchia e spezza il fiato e toglie il sonno e arde e ci consuma, ci condanna a un’altra schiavitù della parola, a essere per sempre stranieri a noi e al mondo e tutto il nostro dolore, tutte le ferite per questo entrare e uscire di continuo dal silenzio e la fatica, l’inquietudine, il nostro

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smarrimento, dimmi, a cosa serve tutto questo se la notte non sembra avere fine e questa oscurità trattiene ogni mio verso, oh Queneau, non oserò turbare l’universo, io scrivo solo per riunire la gioia dello spirito alla carne e per godere di quella pienezza coltivo in solitudine la terra con l’acqua scaturita dalla fonte, poi siedo nel giardino recintato e
aspetto che si annunci il tempo della nuova mietitura, a cosa serve allora stabilire se la poesia si annidi nel bottone mancante al tuo soprabito nel punto esatto della sciancratura o nel gusto penetrante di un dolce che evoca un ricordo, se nasca dal pensiero dominante oppure scaturisca dal logos del principio, se coincida con l’origine del mondo di Courbet o
sia la tentazione indotta da un nugolo di demoni fuggiti da un trittico di Bosch che prima o dopo trascineranno via i poeti, per natura incapaci di resistere al vizio capitale della parola vana e per questo condannati a perdersi in eterno, destinati a dannazione imperitura, se sia un evento magico o solo un resoconto del nostro quotidiano, ricerca di salvezza, verità
(che da millenni attendiamo di sapere cosa sia), cura canto del mondo litania tempo della scienza ripetibile oppure gomitolo del tempo irreversibile che appartiene alla coscienza, mimesi del linguaggio, sua immanenza, vita amore psiche morte, e così sia, oh Queneau, afflitto da una sete inestinguibile vado tra la perduta gente provando

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strenuamente a coniugare scrittura e idea della poesia, incerto se essere un poeta contemporaneo voglia dire uniformarsi al modello prevalente in questo tempo, finendo per smarrirsi nel magma che erutta dalle cavità del pensiero omologante, oppure cercare modalità espressive originali che saldino tra loro presente e tradizione (come nella musica
si propongono Ólafur Arnalds, Ezio Bosso, Silvia Colasanti, Max Richter e molti altri ancora che sarebbe troppo lungo enumerare) in una visione della contemporaneità di continuo mutamento, di frammento del perenne divenire che in sé contiene i germi del futuro, ma forse sai, Queneau, non è necessario interrogarsi sulla nostra attualità
perché di contemporaneità è possibile parlare solo a posteriori, quando un’epoca diventa immutabile e può essere analizzata per verificare quale poesia sia stata in grado di incarnare lo spirito del tempo, è superfluo quindi tentare di definire individuare delineare delimitare la poesia che oggi si fa, dibattere di io decostruito diviso spezzato
sminuzzato e impetrarne la definitiva sepoltura come se l’io non fosse la particella originaria che permea l’universo del poeta, il seme che feconda ogni poesia (credo intendesse questo Julio Cortázar quando nel libro dedicato a John Keats afferma che ogni poesia è un ritorno perché nella sua opera il poeta si restituisce a se stesso), lamentare

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di continuo l’inutilità della poesia non considerando che nel suo essere inutile è racchiusa quella libertà che, come suggerisce la scultura di Pio Fedi nella basilica di Santa Croce a Firenze, può spezzare ogni catena, affrancarci da ogni schiavitù, eppure a volte sai, Queneau, forse suggestionato dai dibattiti che ciclicamente si accendono e si
diffondono simili a virulente epidemie, persino sulle reti sociali trasformate per l’occasione in democratiche (almeno in apparenza) tribune letterarie, ma che, come la Kerstin protagonista del film di Arne Mattson, ballano una sola estate, a volte, dicevo, mi domando anche io se la poesia sia viva, se sia morta o se invece sia risorta e si muova in
mezzo a noi in una nuova forma (in natura, si sa, si conservano materia e energia, nulla si distrugge, tutto si trasforma), resa invisibile dalle miriadi di versi editati senza sosta e senza nessuna pietà per il già sparuto pubblico della poesia che, disorientato da questa offerta traboccante, si dirada sempre più, ma ora sono smarrito anche io e non riesco a
rompere l’assedio di quei pensieri intorno alla poesia che dalle porte Scee della mia mente sento arrivare a frotte a schiere a torme, distinguo ormai nitidamente il fumo che li annuncia all’orizzonte, sento il tramestio, il tonfo degli zoccoli sul campo avvicinarsi più rapidamente quadrupedanteputremsonituquatitungulacampum, di notte
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avverto il cigolio del legno quando si calano dal ventre dei cavalli e invadono ogni ganglio ogni crepa ogni fessura, oh, Queneau, ho l’anima ridotta a un segno di scrittura, a un esercizio di semiologia degno di de Saussure o Roland Barthes, vedi, sono qui e in dialogo con te che non rispondi esploro l’estensione del linguaggio, la sua capacità di assumere la
forma del pensiero, ma è simile alla terra colpita dalla siccità questa scrittura che brucia il seme della mia parola e le foglie verdi dei limoni, liberami dall’insonnia della ragione, dai suoi mostri, dall’aderenza del linguaggio alla realtà, dalla compattezza dello stile, dalla modernità, dalle hésitations e da tutti i tuoi dannatissimi esercizi che mi
tormentano da anni cercando di convincermi che le infinite potenzialità della parola sono solo quelle racchiuse nell’elenco che hai stilato, salvami dalle sinestesie, dalle contaminazioni vicendevoli, dall’emozione pura, dai flussi di coscienza, dai testimoni del proprio tempo, dai manifesti dai movimenti dalle scuole dai gruppi dalle antologie, da
avanguardie retroguardie da qualsiasi appartenenza, dagli emuli dai continuatori dalla verità dai fingitori, scioglimi dall’esigenza dall’urgenza e dall’ispirazione, liberami, Queneau, dalla poesia, guidami tra i salici e l’olmaria fino all’acqua del ruscello e prima che John Everett Millais porti a compimento la bellezza del suo disegno criminoso

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dammi parole piane da regalare a Ofelia, quam pulchra es amica mea quam pulchra es come risplende la tua pelle nella luce del mattino come tutto si fa chiaro al tuo risveglio quella notte che allontani con le semplici movenze del tuo corpo che il tuo incedere dirada a ogni passo quam pulchra es, lasciami qui, Raymond, lontano dal bisbiglio inutile
dei vivi e dal silenzio che pervade l’isola dei morti, fammi restare qui tra i miei alberi da frutto e i fiori di lavanda a gioire del ritorno della luce, di questa perfetta necessità della natura.

Vincenzo Mascolo è nato a Salerno e vive a Roma. Ha pubblicato Il pensiero originale che ho commesso (Edizioni Angolo Manzoni, 2004) e Scovando l’uovo (appunti di bioetica) (LietoColle, 2009). Ha curato le antologie LietoColle Stagioni (con Stefania Crema e Anna Toscano), La poesia è un bambino, Quadernario – Venticinque poeti d’oggi (con Giampiero Neri). Dal 2006 è il direttore artistico di Ritratti di poesia, manifestazione promossa dalla Fondazione Roma.
Nel 2018 per l’editore Mursia ha pubblicato Q. e l’allodola.
La foto di copertina è di Dino Ignani

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