«Indiana, creek, americana: nella poesia di Joy Harjo la storia della tribù cui appartiene si intesse, talvolta in un nodo inesplicabile, con quella di indigena che vive nell’America contemporanea. Dal potere della parola, incentrata nella cultura orale, mito e memoria del modo nativo, discende l’attualissima qualità della sua scrittura: senza folclorismi in essa vivono personaggi, racconti, credenze del proprio bagaglio culturale; senza legnosi enunciati dà forza a un discorso politico e senza censure dà voce alle passioni. Dunque non una figura pittoresca né da museo etnografico, ma affermazione di una complessa identità al di là di aspetti stereotipati delle proprie radici o scelte di vita. Frammenti di biografia famigliare si innestano in un contesto che ripercorre vicende storiche di una conquista alle soglie dell’etnocidio, dolorosamente depositate nella memoria che cerca tuttavia di aprirsi a uno scarto esistenziale verso la ricomposizione del sé. Apertura più difficile o quasi impossibile nelle prime raccolte, caratterizzate da insistite immagini di un senso di chiusura con “bordo, orlo, profili affilati, lamine, riserva, confine” come consapevolezza e testimonianza storica di costrizione, perdita alienante di spazi di luce e di potere rigenerativo. Quel potere che trova nel fuoco, a cominciare dalla poesia dallo stesso titolo che chiude la sezione delle prime due raccolte, una costante metafora di trasformazione e di conoscenza per identificare quel vuoto, ma anche per protendersi verso il raggiungimento di una visione di interrelazioni. Siamo di fronte quasi a una ri-creazione del mondo, in un setting cosmico che significativamente si muove in un andamento circolare e costante dei moti dell’universo (l’eternità… la continuità del cielo azzurro… vento notturno / che brucia / a ogni suo respiro), con un’incantatoria accelerazione verso quel fuoco che sorge da ogni alito di vento.»

Tratto dalla prefazione di Laura Coltelli alla raccolta Un delta nella pelle (2017, Passigli Editore) di Joy Harjo.

 

 

 

Poesie di Joy Harjo tratte da Un delta nella pelle.

 

AN JUAN PUEBLO AND SOUTH DAKOTA ARE 800 MlLES AWAY ON A MAP

for Barbara Wells-Faucon

 

who does he think he is
he’s just a Sioux anyway
she said
drinking a little faster
to catch up

behind her hand
we laugh
because we know how Siouxs are
and we know that we are drunk

words are scattered quickly
into the loud jukebox
music
my voice recedes far away
into the mouth of the Sandias

but she is dancing
at Pine Ridge
inside his wild horse eyes

 

 

IL PUEBLO DI SAN JUAN E IL SUD DAKOTA SONO DISTANTI 800 MIGLIA SULLA CARTA GEOGRAFICA

per Barbara Wells-Faucon

 

chi crede di essere
insomma è solo un Sioux
disse lei
bevendo un po’ più in fretta
per stare al passo

ridiamo
di nascosto
perché sappiamo come sono i Sioux
e sappiamo di essere ubriache

parole si disperdono veloci
nella musica
a tutto volume del jukebox
la mia voce arretra lontana
nella bocca delle Sandia

ma lei sta danzando
a Pine Ridge
dentro gli occhi di lui
cavallo selvaggio

 

 

***

 

 

CONVERSATIONS BETWEEN HERE AND HOME

Emma Lee’s husband beat her up
this weekend,
his government check was held up
and he borrowed the money
to drink on.
Anna had to miss one week of work
because her youngest child
got sick
she says, “It’s hard sometime, but
easier than with a man.”
“I haven’t seen Jim for two weeks
now,” his wife tells me on the phone.
(I saw him Saturday with that Anadarko
woman.)

Angry women are building
houses of stones.
They are grinding the mortar
between straw-thin teeth
and broken families.

 

 

CONVERSAZIONI FRA QUI E CASA

Questo weekend
il marito ha picchiato Emma Lee,
gli hanno bloccato il sussidio
e lui si è fatto prestare dei soldi
per andarseli a bere.
Anna ha dovuto saltare una settimana di lavoro
perché il figlio più piccolo
si è ammalato
dice, “Qualche volta è dura, ma
meno difficile che con un uomo”.
“Da due settimane Jim non si è fatto vivo”,
mi dice al telefono sua moglie.
(Ma l’ho visto sabato con quella donna di
Anadarko).

Donne arrabbiate costruiscono
case di pietra.
Macinano la malta
tra denti esili come paglia
e famiglie distrutte.

 

 

***

 

 

THERE WAS A DANCE, SWEETHEART

It was a dance,
her back against the wall
at Carmen’s party. He was alone
and he called to her – come here, come here.
That was the first time she saw him
and she and Carmen later drove him home
and all the way he talked to the moon
to stars and to someone riding
in the backseat that she
and Carmen didn’t hear.

And the next time was either a story
in one of his poems, or what
she had heard from crows
gathered before snow caught
in the wheels of traffic silent
up and down Central Avenue.
He was two thousand years old.
She ran the bars with him
before the motion of snow
caught her, too, and he moved in.
It was dance.

In the dance were mesas winding
off the western horizon, the peak
of Mount Taylor that burned up
every evening at dusk light.
And in rhythm were mountain curves
that she fell against every night looking up
looking up. She knew him then, or maybe
it had been the motion of crows
against the white cold and power lines.
The voice that was him moved in her,
rocked in her and then the child
small and dark in the dance
dance dance of the dance.

There was no last time she saw him.
He returned with stars, a certain moon
and in other voices like last night.
She heard him first. Screen door slammed
against the wall. Crows outside
the iced tight windows.
Which dance, locked and echoed and sucked
the cliffs of her belly in?
She picked up their baby from the crib,
more blankets to tuck them in.
Loud he called – come here, come here.

It was a dance.

 

 

C’ERA UNA DANZA, TESORO

Una danza,
la schiena di lei contro il muro
alla festa di Carmen. Lui era solo
e la chiamò – vieni, vieni qui.
Era la prima volta che lo vedeva
e più tardi lei e Carmen l’accompagnarono a casa
e per tutta la strada lui parlò alla luna
alle stelle e a qualcuno
nel sedile posteriore che né lei
né Carmen sentirono.

E la volta dopo una storia
in una delle poesie di lui, o ciò
che lei aveva sentito da cornacchie
riunite prima che la neve
catturasse nel silenzio le ruote del traffico
su e giù per la Central.
Lui aveva duemila anni.
Insieme in giro per i bar
prima che il moto della neve
la catturasse e traslocasse da lei
Una danza.

Nella danza c’erano mesa che srotolavano
l’orizzonte a ovest, la vetta
del Monte Taylor che prendeva fuoco
ogni sera al crepuscolo.
E c’erano curve ritmate di montagne
contro cui lei cadeva ogni notte guardando in su
guardando in su. Allora lo conobbe, o forsefu il moto delle cornacchie
contro il freddo terreo e le linee elettriche.
Quella voce che lui era si mosse dentro di lei,
si cullava in lei e poi il bambino
piccolo e scuro nella danza
danza danza della danza.

Non ci fu un’ultima volta in cui lo vide.
Ritornava con le stelle, una certa luna
e in altre voci come la notte scorsa.
Lo sentì arrivare. La zanzariera sbattuta
contro il muro. Cornacchie fuori
dalle finestre sigillate dal ghiaccio.
Che danza, rinserrava, mandava echi, risucchiava
vette nel ventre di lei?
Lei tirò su il loro bambino dalla culla,
più coperte per coprirli.
A voce alta lui chiamò – vieni, vieni qui.

Una danza.

 

 

Joy Harjo è nata a Tulsa, Oklahoma, nel 1951, diretta discendente per linea paterna del capo creek Manaua che condusse la Red Stick War contro il Generale Andrew Jackson agli inizi dell’800, e di madre cherokee-francese. Trasferitasi nel Sud-Ovest per sfuggire alle violenze del patrigno dopo il divorzio dei genitori e l’abbandono del padre,  frequenta corsi di pittura allo Institute of American Indian Arts di Santa Fe nel New Mexico. Dopo la pubblicazione su riviste studentesche dei suoi primi componimenti poetici, si trasferisce nello Iowa, dove nel 1979 consegue il Master of Fine Arts e, di ritorno nel Sud-Ovest, è costretta ai più umili lavori per mantenere se stessa e i figli. A seguito della pubblicazione delle sue prime raccolte, The Last Song (1975), What Moon Drove Me to This? (1979), e soprattutto She Had Some Horses (1983), inizia a insegnare Creative Writing in varie università tra cui l’Arizona State, la University of Montana, quella del Colorado, del New Mexico e la UCLA di Los Angeles. Attualmente risiede a Knoxville nel Tennessee, dove ricopre la Chair of Excellence in Creative Writing presso l’università di quello Stato.

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