resti come dettati
arrossati dai piccoli fremori
segnali appoggiati alle mie palpebre

                                                                                                                                                             

Ci sono libri da maneggiare con cura e Faglie, l’ultimo lavoro di Alessandra Pellizzari (Puntoacapo Editrice 2017), è uno di questi.

Un libro non semplice, da avvicinare per gradi e in punta di piedi. Il termine faglia in geologia individua la frattura in un corpo roccioso che, sottoposto a una molteplicità di sforzi, supera il limite di sopportazione giungendo a rottura. A seguito della rottura, terreni originariamente alla stessa quota di piano vengono quindi a trovarsi a un diverso livello, sfalsati rispetto a una situazione di stabilità iniziale.

Cercando di semplificare al massimo, alla voce faglia corrisponde l’immagine di una frattura ealla voce frattura, quella dell’esplosione di una forza, di un terremoto. Un’equazione graficamente semplice che presuppone però un intimo lavoro di controllo, rielaborazione e crescita. Le fratture e le forze cui l’autrice allude non sono evidentemente di natura geologica ma attingono al suo patrimonio privato. La poesia diventa in Pellizzari strumento di riparazione degli affetti, diventa cura, arnese per interrogare il mondo. 

Come ben evidenzia Elio Grasso nella sua prefazione  I testi governati e qui presenti sono ricchi di avvii e ritorni, di variazioni impreviste e problematicità studiate con rigore. Ci sono resistenze che misurano il diametro della propria vita, abbandoni da cui emergono certe regole terrestri, e generazioni di amori ridestati dopo aver scandagliato i fondaliE da lì, su verso le alture che tappezzano regioni levantine. È come se l’autrice avesse sviluppato arti capaci di inerpicarsi lungo le fratture, di saggiarne i dislivelli, seguendo una metafisica delle rocce e dei conglomerati. La “faglia”, dunque, è un destino […] Qualcosa che tiene desta la forza emergente e di cui la poesia si alimenta. Ogni frammento contiene gradazioni (dal perlaceo al rosso cupo, dal grigio al cobalto) terrene consapevoli d’avere nidificato fortemente nel torace dell’autrice. Non si tratta di interpretare ma di seguire con passi difficoltosi un suolo impervio, reale e cartografico, e che dimostra la doppia faccia di una rovina. La natura certo non viene mai a mancare, ma per così dire subisce un fuori fuoco di cui siamo pieni responsabili. Per questo, talvolta, sembra di udire una ribellione, quando Pellizzari gratta con unghie e polpastrelli la superficie delle rocce con una scrittura anch’essa ruvida come carta vetrata. E avverte orli e polveri che alimentano i crepuscoli.

E se è vero che la faglia è un destino, anche l’epigrafe scelta dall’autrice appare in questo senso significativa. Serbateci la primula e il destino è il verso che Renè Char utilizza come chiusa di Preghiera rossa. Al di là dell’evidente richiamo al destino, si tratta di una poesia di pochi versi in cui il poeta – conscio che ogni difficoltà conduce a una nuova rivolta, e quindi a un nuovo ciclo  – domanda la conservazione non solo della rivolta ma anche del lampo, dell’accordo illusorio, di un riso per il trofeo scivolato dalle mani, dell’intero e lungo fardello che segue.  Perchè l’azione è cieca ma è la poesia a vedere, è la poesia che trascinerà l’azione, ponendosi avanti ad essa. 

Un’opera di azione questa, di vecchi sguardi e nuove consapevolezze, di lutti e rinascite, di antiche credenze e nuove aspirazioni. Un’opera comunque di fiducia nell’avvenire perchè è dalle sfide universali – fra l’uomo e l’attorno, fra l’uomo e gli altri uomini, fra l’uomo e il poeta che egli è – che possono avere origine rivoluzioni e trasformazioni.

Una scrittura non consolatoria quella della Pellizzari dove la struttura metrica svolge una funzione fondamentale di ordinamento degli scenari e delle gesta evocate. Tra tanta poesia volatile e anodina il libro Faglie di Alessandra Pellizzari giunge come un sollievo alla mente desiderosa di densità, di linguaggio vigoroso […] è un resoconto per illuminazioni e frammenti “della vita dilapidata”, con una concretezza che si propaga tramite nominazioni, elementi, dettagli di scenari intimi ed esteriori, tali da rendere esattamente la geografia di un immaginario fitto di “brughiere e ruggini”, “striature e premonizioni” – ha scritto molto opportunamente Daniela Pericone in una sua attenta recensione. 

Una poesia non anodina ma che crede nella parola come gesto di salvezza, come dialogo armonico tra dolore e vita, tra sofferenza e natura – So abbastanza dell’umido sentire/ del dolore che trattiene le cose distinte/ sugli sfondi di un adagio/ di carni colorate e mezze tinte.

Una scrittura che entra in profondità con lame affilate, in cui forze rinate ritorneranno dove non sono mai state/ dove la parola leviga i sensi e il disincanto delle menadi, la squadratura dei ritorni, ocra nell’ombra, eco dell’ambra come somma dei resti/Smanie muoveranno le sprezzature e le nostalgie dei pani che le albe inzuppano. 

Una scrittura che incanta col suo stile mosso e espressionista, ricco di valori simbolici e metaforici, una scrittura zanzottiana nel senso più alto e nobile del termine. Una scrittura ricca di richiami fonici (si coagula da una sepoltura/ la parola, tra i silenzi, beata/ destata da una serica apertura/ piegata dalle sillabe, respirata) e catene associative di significanti puri (nella distanza estinzione, mutata/in distinzione, nulla, proprietà/ conchiglia perduta tra le dita) in cui la complessità della realtà esterna viene colta in tutte le sue seducenti e inquietanti scaglie (così Zanzotto su Petrarca in Petrarca fra il palazzo e la cameretta).

Una scrittura che evoca stanze, stanze che sembrano una rêverie, direbbe Baudelaire.  Una scrittura da maneggiare con cura e poi conservare, aggiungo io.

 

*

nell’ora in cui si destano sirene

di fabbriche sopravvissute

ogni pensiero si spegne.

navi fendono i bacini

sradicano fondali e celesti zone dei verdi.

le viscere della terra dei fuochi pulsano

                                                      sulle mani dei demiurghi

un’aurora ingannevole desterà chi dorme

solo dai riflessi scorgo l’incendio senza scampo

della vita dilapidata.

 

*

Le minuscole utopie sanno trascendere i giorni,

il vapore

che all’anima reca inganno.

Dell’attesa l’intrepido affanno sulla porta

che s’apre con vigore

                                            alle pasture della fame,

dánno

ai decori di cristallo, fragore.

Aspettarti nell’umida soavità

                                         che intride Venere,

da frantoi dove l’uva s’indora

assorbita

da un resto/silenzio

                                      da una lieve entità.

 

*

Nudi propositi tra i colori sbiaditi dell’alba

un topazio sagomato nell’albume della sera

nelle radici di ciò che pulsa sotto la pelle.

*
Sensibilità: perdere la coscienza
per non ritrovarla tra i fluidi.
I ponti si saldano nel profondo.

*
Frasi musicali
abrasi appunti dove l’aspro
addolcisce le labbra,
il perdersi dei tocchi.

*
Con i capelli scarmigliati
gravida di rugiada tra i viali variopinti di foglie
allevando parole dalle radici più dense di sogni.

*

Il mio pube e tu, scriptor

contendenti nella prima ferita di eros

dentro brughiere e ruggini

che la serratura non sopporta

nella cortesia di mani che non mentono ad ogni

alba in cui affonda l’impronta del tuo corpo felice.

 

*

la luna sprofondò in un cielo terso immerso nell’occhio. Moltiplicando lo spazio fenditura dalla retina ad un neo, sibilante era il suono decorato sul vetro di un caffè floreale, con il piede aderente ad ogni inciso/respiro battito brandello parola balbettio di un bulbo, di uno stelo, uno solo.

*

arde sfogliandosi un foglio nei respiri lenti. Il dolore di neve si fa luce col sangue sulle mani. Nei rivoli di cancellature, nella vite ho serbato tesori per i poteri delle tue mura, che ti ritraggono come blocchi di pietra sulle metope di stanze abbandonate. Sguardi esiliati dai castelli inospitali tra spazi lacerati e semi di antiche speranze. Gelide mani tremano sulle figure di aggettivi che si dimenticano nell’umore del disincanto, nei brividi che le gambe non reggono, sulle spalle di squamosi quaderni. C’è un odore di cannella nella notte che disputo con il vento, parti e grafie di vuoti.

 

Alessandra Pellizzari nasce a Verona, vive a Venezia. Storica dell’arte e insegnante, ha pubblicato le seguenti raccolte: Lettere a cera persa (Lietocolle 2006, prefazione di Andrea Zanzotto), Intermittenze libro d’artista (con una partitura di Saverio Tasca), 12 testi per l’antologia 12 poetesse italiane (Nem 2007, con testo critico di Francesco Carbognin), Mutamenti (Campanotto Editore 2012). È presente con alcuni testi nell’antologia La mano scrive il suono, curata da Eliza Macadan, pubblicati in Romania (ed. Eikon, Bucarest 2014). I suoi lavori sono stati ospitati in numerose riviste e blog.

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