Che cosa giustifichi l’evento della scrittura è l’incognita di tutta la storia della scrittura; in essa si rielabora e ripropone non solo l’avvento della parola ma tutta la storia umana, ogni volta riavvolta nel libro e riscritta dall’autore. La grande poesia lirica è il tentativo di rispondere all’interrogativo dell’esistenza, sia che avvenga con la cattiva lirica in cui l’autore rivende le insulse riflessioni sul proprio quotidiano, sia che il poeta ponga sé come un’infinitesimale parte del tutto, un pulviscolo mobile di materia che non interroga il mondo ma interroga sé poiché inglobato in esso – basti pensare al definitivo verso di Majakovskij «se io fossi piccolo come il grande oceano», in cui l’io poetico ridotto ai minimi termini è il ‘meno infinito’ che applica finalmente il rovesciamento dello sguardo sulle cose. Da lì, dal punto più remoto del grafico, le cose avvengono specularmente ma lontanissime dal poeta, che le osserva come da una posizione indefinitivamente distante dell’universo; non è Leopardi a guardare la luna, ma la luna è Leopardi che illumina il deserto e lo ricrea con la parola. In tal senso il momento della scrittura, nei casi più felici, è il tentativo atto a risolvere il senso di colpa dell’azzeramento di un soggetto che non riconosce più il suo ruolo, i suoi rapporti con l’altro; forse tutta la storia della mistica e della lirica è la richiesta impossibile di una risoluzione al senso di smarrimento dato dall’abbandono da parte dell’altro, a cui non si ritorna più, se anche giunti a vette elevatissime, il monte di Juan de la Cruz, non vi sono risposte ma il deserto del nada. E questo basterebbe a decretare l’inutilità di tutta la storia della lirica, se non fosse che proprio in questa inutilità – e solo in essa – la vacuità del discorso ha ancora un senso, in questa mancanza che la pone al riparo dalle posture esistenzialiste di consumo.

Gianluca Fùrnari ha compreso l’irrisolvibilità della mancanza e si è immerso in essa, ha riscritto la sua piccola storia senza alcuna speranza e l’ha resa, per questo, exemplum umanissimo di rielaborazione inconsolata dell’abbandono. La storia di Fùrnari non può che ruotare attorno all’unico evento della scomparsa del padre, e in essa si consuma il tragico distacco dalle cose, che rinnovano il momento dell’abbandono piuttosto che consolarlo o distaccarlo; è un nuovo sistema conoscitivo che si impone al poeta, accolto raramente con toni di patetismo elegiaco, che possono destabilizzare solo superficialmente il lucido fatalismo mediante il quale l’io investe il proprio sguardo poetico. La peculiarità della scrittura di Fùrnari è proprio la sua apparente serenità, il tono dimesso ma profetico che diviene non solo exemplum esistenziale ma soprattutto letterario, mediante uno stile in cui il testo appare intarsiato nella pagina, frutto certo di logoranti riflessioni e rifiniture. All’urlo e al frastuono del conflitto Fùrnari preferisce proferire a bassa voce, imponendo al lettore un silenzio monastico che è al contempo densissimo di luci, suoni e colori che si manifestano in una vitalità avulsa dal poeta, il quale pare collocato in un bivio, tra un sentimento di esclusione e di compartecipazione mediante la parola: «ricordava le parole/ che schierammo una notte/ sul fondo inanimato delle cose:/ parole primitive, che epurano/ qualsiasi particella di dolore,/ riciclavano il canto» (p. 20). Riscoprire le cose attraverso la nominazione di esse, appunto, sapendo che in esse non si può risolvere l’abbandono che esse rispecchiano, l’infinita assenza del lutto, il cui ricordo può manifestarsi nelle immagini più armoniose ma anche nei toni ossessivi di una presenza opprimente: «o quando rannicchiati/ facevamo la camera più vuota/ dei nostri corpi -/ e poi ti vedevamo/ allontanarti in noi, precipitare» (p. 34). Perdita del padre è perdita del legame con la parola data ab origine, è smarrimento conoscitivo dacché è infranto il rapporto embrionale che coordina le cronologie della vita e della scrittura, da cui l’autore riesce a cogliere l’occasione per la splendida rappresentazione di un tragico rinnovamento attraverso il libro, dato al lettore non in forma di memorie di un condannato ma di racconto travagliato del sopravvissuto.

Il Vangelo elementare (Raffaelli Editore, 2015) di Fùrnari è una grande prova di eleganza poetica, scevro da qualsiasi postura banale nella quale si cade fatalmente quando si tratta di impaginare fatti troppo intimi; la vita e i dolori di Fùrnari ne risultano esaltati proprio rifuggendo ogni ricerca di compatimento altrui, si elevano in una placida e coraggiosissima solitudine eroica che, ribadiamo, non si esplicita nell’altezza ma nelle profondità minerali in cui la vita tace, si rigenera autonomamente, trova spiragli altri di resistenza.

 

– da Vangelo elementare:

 

VIII.
Quel giorno ne trovammo a centinaia –
cacciavamo le mani sotto l’acqua
li portavamo a riva:
setolosi, di fogge così antiche,
non ne conoscevamo il nome esatto;

ma quella loro vita
stupiva, ricordava le parole
che schierammo una notte
sul fondo inanimato delle cose:
parole primitive, che epuravano
qualsiasi particella di dolore,
riciclavano il canto.

XI.
Poi il tardo inverno prodigo di grazie:
prendevano a trascorrere i cristalli,
la neve ci disseppelliva amori –

noi con la sola facoltà del canto
scalavamo i tornanti pietra a pietra,
trovavamo cadendo
l’anima avventurosa dell’altura.

Vale la pena rifare il cammino tra l’eco e il canto
finché l’origine dell’eco ci innamora,
se pure non c’è canto in fondo all’eco
se il canto è quell’impervio resistere dell’aria.

XIX.
Ma tornavi ostinato ad ogni soglia,
padre – a noi, quasi fossimo un diritto.
E poi ci sorprendevi dentro il fango,
di ogni cosa chiedevi la ragione.

«Quale ragione, padre, – pregavamo
noi nudi, – se non siamo
venuti che a ripetere la vita?»

O quando rannicchiati
facevamo la camera più vuota
dei nostri corpi –
e poi ti vedevamo
allontanarti in noi, precipitare.

XXIII.
Ci era fedele il passo tra le felci:
sul passo che portava alla tua fossa
giocavamo a campana (pregavamo):
così di pietra in pietra,
calpestando il torrente fino al salto –
saltavamo con lui.

Luce deposta, amore,
canto che intimoriva il nostro canto,
casella accesa al termine del gioco –
ma eri tu, seppellito in altitudine

XXXVI.
Sarà nostra, alla fine, la parola
che chiuderà le porte ad ogni evento;
la parola trascelta nel silenzio
del mondo senza fiato, senza storia;
ma la parola che racconti tutto,
che semplifichi tutto;
ma la parola sotto cui riposi
l’umanità sedata.

(Ci sembra già di averla tra le mani
la parola non soprannaturale,
molto simile al vento, ma più simile
a sé stessa, in sé stessa confidente,
che non dirà nient’altro che sé stessa
e così dirà il mondo;
la parola non nuova, ma non epica,
non alta, ma non logora).

Sarà nostra, alla fine, la parola
che schiuderà le porte ad ogni evento.

 

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