La scrittura di Eleonora Rimolo ne La terra originale (LietoColle, 2018) non concede nulla da obiettare agli amanti del «bello stilo»: prova ne è la perfetta scelta dei tempi nella stesura delle frasi (come puntualmente rilevato da Pontiggia nella Prefazione), accuratamente rimandate a capo tramite un insistente ricorso all’enjambement che scandisce la ritmicità del verso; l’utilizzo delle figure retoriche è operato con misura e consapevolezza del fare poesia – materia di cui Rimolo è ovviamente avvezza per passione e professione – ma ciò che fa piacere agli occhi e, soprattutto, alle orecchie del lettore è la sensazione di non trovarsi di fronte a un glossario di figure retoriche sfoggiate per ostentazione; gli espedienti utilizzati mirano difatti a mantenere una certa architettura del ritmo, sempre in crescendo fino alla fine del libro, dove la scrittura sembra volersi liberare dell’interpunzione, adesso ridotta a strette necessità di natura grammaticale. Costante stilistica è la concatenazione fonetica attraverso fenomeni di paronomasia o più spesso di allitterazioni insistenti che conferiscono al testo un andamento ritmico incalzante; nel componimento I maestri insegnano in silenzio si può giocare a rintracciare le numerose similitudini di suono, cosa che lasciamo fare al lettore, poiché crediamo che non sia unico lavoro del critico stilare una mappatura dei fenomeni testuali, a meno che non crediamo che la critica a un testo si debba ridurre a un’attività per ragionieri.

Il progressivo mutamento ritmico è sintomatico anche di una diversa proposizione del soggetto nel testo, del quale emerge una riflessività assillante nella prima sezione e un tentativo di recupero di carattere più istintuale nella seconda, laddove la rielaborazione del vissuto si compie attraverso uno sguardo allo specchio operato tramite elementi esterni, con particolare attenzione per il paesaggio a cui è riservato, romanticamente, la figurazione dello stato d’animo del poeta; sul rapporto dicotomico tra paesaggio e poeta (oltre che essere chiara materia leopardiana) era strutturata un’enigmatica raccolta di Andrea Zanzotto, Dietro il paesaggio, anche se lì l’afflato lirico-antropocentrico preannunciava già la propria riduzione ai minimi termini delle prove successive; nella poesia di Rimolo pare echeggiare quella vocazione all’eclissi del soggetto lirico di fronte al ‘resto’, benché essa si manifesti a volte sotto forma di pulsioni riferite in toni funerei, come se una conciliazione col mondo fosse possibile solo attraverso un estremo sacrificio, o comunque a seguito di gravi privazioni che rasentano l’autoflagellazione, e ciò instaurerebbe un ulteriore collegamento con tutto un filone stilnovista, soprattutto cavalcantiano, di rielaborazione tragica e dolorosa del sentimento amoroso inteso come corpo a corpo mortale con esso – e proprio la scelta di intitolare le poesie tramite il primo verso di esse non può che essere un chiaro segnale dei debiti dell’autrice nei confronti di quella grandiosa esperienza poetica. Tutta la raccolta è difatti caratterizzata da questo leitmotiv della deflagrazione, dichiarato già in apertura della raccolta: «Ancora sono tentata dallo svanire/ se ogni giorno scavo un lembo di pensiero/ e mi riduco a un liquido vischioso, irriflessivo,/ che non lascio bere a nessuno» (p. 17), fino a immaginare un estremo esodo in abbandono del corpo: «Andremo via così senza cose,/ non ci muoveremo di un passo: / ogni tua rosa sta già per marcire» (p.42), e pare qui inutile ricalcare gli elementi che Rimolo ha certamente assorbito dalla tradizione poetica di cui si parlava sopra.

In ogni caso non organizzeremo il nostro discorso attraverso temi e strutture di pensiero appartenenti a quasi un millennio fa; dopotutto il discorso amoroso ne La terra originale non riguarda un rapporto impossibile e mistico ma piuttosto la fine di esso, la sua rielaborazione conflittuale a seguito dell’abbandono di un’immagine di sé ormai irriconoscibile, poiché ogni soggetto è riplasmato dai rapporti e si riconosce solo finché essi sopravvivono; lo stato problematico della solitudine è affrontato su due frangenti che agiscono simultaneamente, ossia la presenza di un estraneo – una nuova forma del proprio esistere – e il dolore della mancanza per la perdita della vecchia immagine di sé, ora rigettata; è sul confine di questi due elementi che si avverte un contrasto, una tensione asfissiante che conferisce al libro una sinistra soavità, come una faglia prossima a innescarsi ma celata da una forma poetica estremamente godibile. L’elemento peculiare del libro non è dunque la sua architettura stilistica, quanto piuttosto una certa morbosità, non sempre facilmente riscontrabile nel testo, che Luigia Sorrentino aveva già rintracciato nella raccolta precedente di Eleonora Rimolo, Temeraria gioia, come «fenomeno intestino e misteriosamente rituale»; esso si ripropone in quest’ultimo libro con una più spiccata sensualità che tende progressivamente a rivelarsi, in misura quasi confessionale, attraverso le esperienze dell’autrice – in quale tempo della memoria è difficile dirlo – rivissute a tratti con apparente pudicizia, e agli occhi dell’adolescenza il sesso non è che un «tarlo» insistente o un mero rito obbligatorio per il passaggio a quell’età adulta che sigillerà la perdita di un’ingenuità vanamente rimpianta. Ecco che il carattere sensuale della raccolta si esalta non nei versi più espliciti o attraverso riferimenti più o meno celati, ma proprio nelle pagine apparentemente più ingenue e innocenti, quelle del ricordo degenerato in «incubo» (penultima poesia allegata); lì il desiderio non può che rimanere irrealizzato sulla pagina ed è emblematico della tensione e delle pulsioni delineate in precedenza (si legga soprattutto l’ultimo testo qui allegato). Questa mancanza è un desiderio non definibile, irrealizzabile perché già finito – esso appartiene solo a quel passato – benché mai cominciato; allo stesso modo la scrittura mai definisce, può abbozzare soltanto stralci di esistenza che non più appartengono all’autore.

 

da La terra originale

 

Dalle carcasse dei gatti lasciate
nella cenere di questi disastri
sale un fumo di arancia rossa
amarissima, riconosciuto veleno:
forse la ricorderemo questa strage
nella malattia, come non sai se di gioia
o rabbia o noia piangono abbracciati
quei due seduti avvinghiati
sopra la panchina, dietro il campanile,
mentre ci avvolge tutti la stessa nube
rubina, l’uguale sorte tremenda.

Come scende la vita queste scale
come si sottrae all’incontro, come
affonda dentro la ferita cava, pulsante
quando terminato il giorno guaisce
il cane disperato col seme in eccesso.
Vorrei che fossi tu, vorrei
che nulla restasse inviolato,
bere quanto trabocca ed infine
ubriachi, prossimi alla partenza
con le code che salutano e le lingue
asciutte, noi educati viaggiatori noi
bestie turbate, incontaminate.

Niente ti rende docile creatura
nemmeno il siero che secerni
dalle mani e non coagula – solo punge
se ti strappi con le unghie ogni giorno
un filo di tessuto. A volte cerco
di sedarti, schivo i tuoi calci, ti chiedo
di attendere un nuovo germoglio
quando al mattino spettri di luce
ci risvegliano dal pallido incubo
della giovinezza.

Il grigio incenso della sagrestia e noi,
fiamme bambine contro la preghiera
informi dentro sacchi, spesso mute:
in quegli anni era tutto un rimanere
e il tuo sesso non cresceva
– non cresceva – sotto i miei baci
pesanti come sassi. Impenetrabile eri
il cardine di ogni altrove,
la sola metafisica possibile,
il digiuno forzato del penitente.

 

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