Esce nel marzo del 2018, nella collana foglie e radici – Biblioteca del Vernacolo- di Book Editore, ZÀNDRI di Aberto Bertoni, che comprende poesie in dialetto e prose poetiche che propongono, per quei versi, una sorta di ‘rovescio’ letterario.
Con la scelta di scrivere un‘opera in dialetto modenese, il libro svela una pagina nuova nella produzione in versi di questo importante poeta contemporaneo. Affiora infatti una voce diversa rispetto alle raccolte precedenti di Bertoni, scritte in lingua italiana con qualche breve escursione dialettale: i versi di ZÀNDRI hanno voce coesa, sicura, risoluta. Afferma in proposito Emilio Rentocchini anch’egli autore di bellissimi versi dialettali, proveniente da Sassuolo: “[i tuoi versi] portano allo scoperto la tua parte forse più raffinata di intellettuale, che sa di dovere qualcosa (o tanto) alla sua terra. È un libro assolutamente tuo e quindi necessario”.

Alberto Bertoni affonda con coraggio le mani nella lingua delle sue radici, il modenese della piccola città bastardo posto, che lui maneggia con premura, lavorando moltissimo per farla diventare una lingua poetica, dal momento che quel modenese non corrisponde alla sua lingua madre (la madre da sempre aveva impedito l’uso del dialetto per suo figlio). Sono invece le radici di una lingua parlata dai nonni materni e dal padre, che libera la sua voce dialettale soprattutto nell’ultima e dolorosa parte della sua vita, come racconta il poeta.
Proprio per questo il libro è dedicato al nonno Mario, come si legge in un esergo affettuoso:

a mio nonno Mario Sighinolfi, nato come me un 23 di marzo (del 1900), che – di nascosto a sua figlia – mi ha insegnato il pochissimo modenese che so”.

Con questa dedica si avverte la sensazione di avere a che fare con qualcosa di prezioso: una lingua, una eredità straordinaria che il poeta custodisce come un tesoro, che riscopre con la maturità e decide di donarla al mondo con queste pagine.

La scelta del dialetto mette in campo una voce a tratti meno controllata, rispetto all’accortezza che caratterizza le precedenti e notevoli raccolte di Bertoni, tra cui segnalo le più recenti Ricordi di Alzheimer (2008, 2012, 2016), Il letto vuoto (2012), Traversate (2014).

Se è vero che molte delle immagini e dei temi ricorrenti nel libro sono quelli peculiari della penna di Bertoni – le amicizie più franche, gli affetti, l’amore, la passione per il cibo, per il calcio (il Modena dei canarini) e le scommesse ai cavalli… – qui la scrittura ha uno slancio diverso: è più ‘libera’ nell’espressività, nella scelta delle parole, nel far danzare insieme riflessioni esistenziali e modi di dire, spesso della tradizione modenese. La versificazione è brillante, briosa a tratti scanzonata, a volte più sofferta ma sempre gioiosamente musicale, proprio grazie al dialetto, con quella sua particolarità di suoni aperti e pieni, e quelle vocali che devono riempire la bocca quando si pronunciano.

Molte poesie sono affreschi di momenti e persone che appartengono al vissuto del poeta: a loro viene dedicato un ricordo privilegiato, calato in una dimensione senza tempo, con una freschezza di gesti e di parole. E grazie alla poesia, con tenera irriverenza il poeta può tornare bambino: non sono pochi i testi in cui l’autore afferma “io da piccolo…”, superando così quella soglia di attenzione (inconsciamente, forse, quel divieto!), per abbracciare la lingua più aderente al sé, che sin dall’infanzia freme sottopelle.

Nel libro si evocano molti defunti: ZÀNDRI è la lingua della cenere, una lingua più ‘aerea’, in grado di raggiungere altezze e profondità spesso intoccabili, grazie alla sua leggerezza e alla sua impalpabilità. Una lingua che il tempo – a partire dall’infanzia del poeta- non ha corroso o distorto, ma che è stata in grado di rinascere con più forza in questa opera, prendendo vita dal dialogo con chi ha saputo abitare il cuore di un maestro, con parole, sguardi, silenzi.
Le ceneri danno vita ad un’opera complessa, che contiene in sé due libri: nella prima parte troviamo ZÀNDRI Vers mudnes (poesie in dialetto modenese, senza traduzione in calce); nella seconda parte troviamo CENERI, Versi modenesi tradotti in prosa italiana. Ed è interessante l’operazione di riscrittura dei testi in lingua italiana (la lingua del sì, sottolinea il poeta) nella seconda parte del libro: testi tra- scritti in prosa, che dimostrano di essere testi altri, scritti in altra lingua che hanno una loro autonomia e bellezza letteraria… come se ci fossero due autori distinti che maneggiano lingue diverse. Singolare, poi, risulta l’impresa di ‘traduzione’ che Bertoni fa della poesia Una canzone di Iosif Brodskij: prima in dialetto modenese e poi nella trasposizione in prosa italiana; e il lavoro di libero adattamento della poesia Un cieco di Jorge Luis Borges, allo stesso modo: prima in dialetto modenese, poi in prosa italiana. Sono straordinari passaggi di lingue, che originano nuove creature grazie a immagini, parole di gradi maestri della poesia: un dialogo illuminante che Bertoni intraprende – ormai da tempo- con la letteratura del Novecento.

Possiamo dunque leggere ZÀNDRI come un dialogo, in primo luogo, come spiega l’autore nella nota introduttiva, con la figura del padre, che comincia a parlare in dialetto col figlio proprio quando inizia a perdere la memoria a causa del morbo di Alzheimer. In secondo luogo, come un dialogo intenso e audace del poeta con se stesso: un sé che scopre una voce diversa, scavando con strumenti affilati intorno alla delicatezza delle radici.

Infine, poiché la poesia ha un valore e un respiro universali, questo libro è un viaggio fra i volti e le voci che si avvicendano nella vita di ciascuno di noi. Fra le ‘ceneri’ che possono gettare luce sul passato, per illuminare il presente e spargere ‘polvere’ sul futuro, grazie a una lingua che riaccende la presenza di chi ha inciso dentro di noi un segno profondissimo, a partire dalle parole.

 

da ZÀNDRI, Vérs mudnê∫

Merlin Cocài

per mia nonna Augusta Galli, in memoria

“Toch in mina”, t’è-m giv,
“Tròia d’un gabiàn”
tòtt el vòlti ch’a fèva l’ucaròun
o quand a-m saltèva in mèζa-i óc ́
la curdlèina dla tô canèla
e l’éra un pitto-pitto da mat
a l’òrba gnir in fànd al curidôr

Tè, inveci, ‘t padìv per la zivàtta
che ogni tant la zighèva
lughèda in zémma ai càpp
da la pèrt di Neri
a al sôl a-l termèva in un lu∫ôr
ζò per el dàzzi

Dimàndi dàpp,
in mèrz o in avrìl,
i te tgniv’n a lèt i nêrev
el mantèini ed stravèint
a scultèr l’érba s’ciflèr
i èlber sunèr
‘na zirudèla da viv

Ind-i ùltem tèimp
t’ér tótta pighèda
què∫i un pasaròt da gnint
e mè a sûn chè, ogni meζdè
a insugnèrem dû stricàtt con la rodêa
cal tô fritlèini ed bacalà, ed zervèla
o ed chèrd

*

Pòst basterd zitée cìna

a Francesco Guccini

Mèdra o pèder, la léngua,
èlber o smèinta,
amm ch’a-l c’mànda e al bacàia
o dánna ch’a t-insèigna a cantèr?

Alóra, gh-àla colpa Mòdna
s’l’a-s ciòca tótt i dé
in fànd a la bácca
fin a la punta di stivài
perché nuèter a sàmm sôl
el paròli ch’a bia∫gamm
tramèζ ai dèint
e brì∫a la ca’ ind-va stàmm
el prédi, al fiómm, chi dû fónζ
dabàs ai sintêr…

Post bastèrd, sé, zitée cìna
Mo anch la zitèe d’la prémma mina,
d’la prémma canzòun, d’la prémma psìga
scarghèda in un purtòun

*

da CENERI. Versi modenesi tradotti in prosa italiana

 

Merlotto gabbiano

per mia nonna Augusta Galli, in memoria

“Tacchino innamorato”, mi dicevi, “Scemo d’un gabbiano”, tutte le volte che facevo lo stupido o quando mi saltava fra gli occhi il cordino del tuo matterello e avevo una fifa da matti a spingermi nel buio, fino in fondo al corridoio. Tu invece soffrivi la civetta, che ogni tanto piangeva, nascosta sulle tegole dalla parte dei Neri, mentre il sole tremava in un luccichìo, giù per le grondaie. Tempo dopo, in marzo o aprile, i nervi ti costringevano a letto, le mattine di stravento, a sentir l’erba fischiare e gli alberi intonare una filastrocca da vivi. Negli ultimi tempi eri tutta ripiegata, quasi un passerotto da niente, e io sono qui, ogni mezzogiorno, che mi sogno due strichetti coi piselli, le tue frittelline di baccalà, di cervella o di cardo.

*

Piccola città bastardo posto

a Francesco Guccini

Madre o padre, la lingua, albero o seme, uomo che a voce alta comanda o donna che t’insegna a cantare? Allora, che colpa ha Modena se ci batte tutti i giorni in fondo alla bocca, fino alla punta delle scarpe, perché noi siamo solo le parole che ruminiamo fra i denti e non la casa dove abitiamo, le pietre, il fiume, quei due funghi là sotto nei sentieri… Sì, piccola città bastardo posto, ma anche la città della prima ragazza, della prima canzone, della prima vescica scaricata in un portone.

 

Alberto Bertoni (Modena 1955) è autore – in poesia – dei libri Lettere stagionali (1996, nota di Giovanni Giudici); Tatì (1999, omaggio in versi di Gianni D’Elia); Il catalogo è questo. Poesie 1978-2000; Le cose dopo (2003, postfazione di Andrea Battistini); Ho visto perdere Varenne (2006, prefazione di Niva Lorenzini); Ricordi di Alzheimer (2008, 2012, 2016 con una lettera in versi pavanesi di Francesco Guccini, e da una nota critica di Milo De Angelis, 2012); Il letto vuoto (2012), Traversate (2014, prefazione di Paolo Valesio), ZÀNDRI (Book Editore, 2018). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, francese, russo e ceco, mentre in spagnolo ha pubblicato l’antologia El guardián del lugar (2012, con un saggio di Pier Damiano Ori).Professore di Letteratura italiana contemporanea e di Prosa e generi narrativi del Novecento nell’Università di Bologna, dirige per Book Editore le collane di poesia “Fuoricasa” e “Quaderni di Fuoricasa”. Sul piano saggistico è autore e curatore di diversi articoli e libri, tra cui i Taccuini 1915-1921 di F.T. Marinetti (1987), Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano (1995), La poesia come si legge e come si scrive (2006), il “Meridiano” dei Romanzi di Alberto Bevilacqua; La poesia contemporanea (2012).

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