Dall’Annuario di poesia 2015
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(Il presente testo rappresenta un breve riassunto di un lavoro molto più ampio su Salvo Basso, ancora inedito. Si segnala l’uscita di una recentissima antologia di testi, Scriviriscrivir, Interlinea 2014, curata da Renato Pennisi e con una presentazione di Giovanni Tesio).

Credo che, sostanzialmente, la questione del dialetto nell’opera di Salvo Basso, si possa riassumere in una tenzone tra l’aspetto conservativo – la lingua praticata a partire dalla scoperta di poche parole: «sbrizzi / acculandatu, zzuccarii» (da Ccamaffari) – e un aspetto fatico, dispersivo, attinente a un «nenti», (niente): lingua in grado di preve-dere, di dire prima della sua estinzione.
Questa lingua del prima, pensata, più che parlata, è un dialetto “stenografato”, e quindi semplificato nelle sue componenti sonore e ritmiche. Lingua parlata in testa, utilizzata, cioè, nel suo aspetto immediato di “phonè”, proponendosi, dunque, come antiletteraria. Si legga una dichiarazione di Renato Pennisi (in «Girodivite», n.93/2002): «il suo dialetto siciliano è il mezzo espressivo dei nostri giorni, che nulla ha a vedere con il passato, con l’arcadia, con le civiltà contadine morenti».
Salvatore Paolo Garufi immagina, dunque, Salvo Basso come il «maestro di una possibile e rinnovata avanguardia» fautore di «un colpo di Stato sull’ambiente», adottando «una scrittura per niente rispettosa, né delle pretese regole ortografiche, né della stessa separazione delle parole all’interno della frase. […] La geografia di Salvo Basso è psichi-ca e la poesia nasce da quella geografia» (si veda il saggio Geografia poetica di Salvo Basso, in La figura e le opere poetiche di Salvo Basso, Atti del primo convegno di studi sulla poesia di Salvo Basso, Scordia 12-13-14 Dicembre 2012, Prova d’Autore 2003).
Giuseppe Cavarra sottolinea il rapporto della poesia bassiana con un nichilismo di fondo, seppure tutto proteso all’apertura, al progetto; quindi attraverso l’ausilio di un dubbio continuo, capace di mettere in discussione le acquisizioni e i traguardi, persino la propria stessa scrittura e idea sulla scrittura: «(nun funziona. Mi pareva all’inizziu l’idea bbona, ma, accussì, subbracarta, nunn’é cosa. Forsi a mo parola preferita stu continuu sapiri ca nun sacciu. Stu ddubbiu ca stringi u fogghiu. A penna, ca camina mbriaca)» (da Forsi (E sforsi), raccolta pubblicata in Arrivederci a Sortino).
Forse il dato più interessante, mi sembra, sia la rilevanza di un fare poesia pensando a contesti non esclusivamente letterari ma a una contaminazione cercata dentro un mix di dialetto e cultura: una sorta di laboratorio a cielo aperto che configura il testo come una fenice ri-sorgente dai suoi stessi errori e che con gli stessi problemi si ripropone: «La poesia, quando è / vera, dopo essere stata / letta, deve lasciare / sempre qualche dubbio» (da un testo inedito riportato in Le dita sono già in meditazione, di Antonella Frazzetto, Edizioni Novecento 2009). Da una parte, quindi, il dialetto si pone in rapporto col presente e prova a raccontarlo, a inciderlo; dall’altra, immerso nella sua stessa morte cosmica, si fa traccia cronologica della resistenza della voce, della sua vocazione a durare: «Iu e ddì / Ddialetti. // Nun capisciu / Mancu chiddu /Miu – ccussì / Mi pensu / Macari / In italianu» (da Dui; «Io e quei / dialetti. // Non capisco / neanche quello / mio – così / mi penso / pure / in italiano»).
E ancora, con maggiore chiarezza programmatica, nel saggio postumo Il mio dialetto (apparso sulla «Gazzetta ufficiale dialetti», n. 1, Giugno 2002): «Parlo in una lingua dimenticata. Forse io stesso l’ho imparata e dimenticata. Il dialetto, quel dialetto, non è il mio destino. È un momento letterario, come altri, per me. […] Una neolingua, sgrammaticata, eccessivamente contaminata, irreferenziata se non nella mia mente/esperienza».
Questo “solipsismo” non è da intendersi nel senso di un minimalismo a tutti i costi; forse lo è, e in parte, di stampo magrelliano, ma mi sembra più ascrivibile all’area di un esistenzialismo non del tutto pacificato considerando, per esempio, alcuni testi estremi presenti in Ccamaffari. La riflessione di Salvo Basso e del suo entourage, è evidentemente maturata nel contesto di una provincia letteraria isolata ma ricca di fermenti. Se analizziamo il senso di uno dei testi più sperimentali di Salvo Basso presenti in Libro necessario, è facile notare come le sollecitazioni delle strategie di scrittura di questo poeta non sembrano provenire direttamente da una diretta frizione con le forme della tradizione ma dal tentativo di innestarle nell’oggi, di convocarle in un presente tutto da reinventare.

ambient/azione significa più cose: ambiente;
azione; ambiente e azione; l’azione
dell’ambiente; l’azione sull’ambiente
(ambientazione); significa uno sguardo
intorno, non genericamente monolitico e
asettico ma pluridimensionale; uno sguardo
alla realtà e all’immaginario (sogni-speranze-
ideali-utopie-ucronie).

Del resto basterà mettere a confronto una dichiarazione presente in Quattru sbrizzi, «scriviri è / muzzicarisi / a lingua», (scrivere è / mor-dersi / la lingua), con un pensiero di Valerio Magrelli posto a esergo in Dui: «La mia impressione è che la scrittura nasca soprattutto da un conflitto, da un disturbo nei confronti del linguaggio. Non si scrive per natura, ma piuttosto contro natura».
Mordersi la lingua, dunque, è affermazione ambigua che può attestare, sia un lavorio, la ricerca della propria lingua letteraria, (scrivere contro natura, e quindi contro la lingua della tradizione), ma anche una cesura, se non addirittura una censura (muzzicarisi u mussu, in dialetto, può anche voler dire aver detto qualcosa in più, che ha provocato, o che potrebbe provocare, una reazione emotiva nell’ascoltatore).
Scrivere è, allora, un’attività connessa sia con la lingua della gente – la lingua effettivamente parlata, verso cui bisogna rendere conto – sia con i propri riferimenti ai maestri, “traditi” in una propria lingua: un idioletto definibile solo in termini di travaso sul foglio bianco di sollecitazioni culturali e biografiche.

Salvo Basso nacque a Giarre (Catania) nel 1963, ma trascorse tutta la vita a Scordia, centro agricolo della Pianura di Catania, dove morì nel 2002. Laureatosi in filosofia all’Università di Catania, dal 1994 fu Assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Scordia, poi dal 1998 anche con funzioni di vice sindaco, fino alla morte. Pubblicò i libri di poesia Quattru sbrizzi (Edizioni Nadir, Scordia 1997); Dui (Prova d’autore, Catania 1999); qo (Edizioni l’Obliquo, Brescia 1999) e Ccamaffari (Prova d’autore, 2002). Altre poesie sono presenti nelle antologie Siciliomi (Prova d’autore, 2000) e Chiana e biveri (Prova d’autore, 2002). Sono stati pubblicati postumi Egomeio (Salvoesie, 1979-81; Prova d’autore, 2003); Libro necessario (1982-84) (Edizioni l’Obliquo, 2004); Fase lunare (1985-90) (Edizio-ni l’Obliquo, 2007) e Un pensiero che non finisce – Versi (1997-2002) (Edizioni Novecento, Mascalucia 2006). Nel 2007 a Scordia è nato, per ricordare la sua figura e per continuare il suo lavoro, il Centro Studi e Ricerche Letterarie Salvo Basso.

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