Dalla prefazione di Plinio Perilli

Doris Emilia Bragagnini – calma solo in apparenza, al massimo entità ctònia, sotterranea come certi fiumi carsici del suo Friuli – semina inquietudine e centellina, rintana vigore anzitutto nel Linguaggio, ecco qui: nel verbo di cui fa, erige ogni volta un nuovo  fulcro e un nuovo incipit, per il corpo e l’anima, per la vita e la Storia, per la poesia e la sua essenza […]. Strana e semplicissima, Doris attinge, s’inventa dunque una formula che elegge a titolo, un neologismo bizzarro mediato, innovato tra Claustrofobia (l’eterna paura dei luoghi chiusi, ristretti) e Claustrofilìa che è viceversa la tendenza patologica a vivere i luoghi chiusi, a separarsi dagli altri […]. Salta il significato di fobia o filìa. Rimane solo la sostantivizzazione del Suono Chiuso, suono nel chiuso, insomma del suonare (assordare?) al chiuso. E torniamo a tutto ciò che per Doris è claustrofonìa poetica (o magari sliricante, per malessere appunto impoetico […]. Poderosa e affilata, la ricerca di Doris privilegia, investiga e macina linguaggio come unica vera risorsa, carburante e vicissitudine del fare (pensare e pensarsi) poesia. Di volta in volta, se ne libera e se ne danna, se ne libra e se ne ammanta. Qui vanno anzi in scena, tutte le gesta, tutte le diatribe e le speranze, insomma i miracolosi, espressivi travagli, del destino del Linguaggio […]. A specchio, per rifrangenze incrociate, parallele o secanti, infrante o affrante di mera, istintiva emotività, riflessive ad libitum, queste sue poesie sono ipotesi e già sentenze inoppugnabili; diagnosi omeopatiche o teoremi psichici; molto spesso, anche (vado citandola), carboncini, schizzi tratteggiati di una storia […]. Bragagnini […] farcisce e dissemina la sua raccolta di intriganti, significativi filosofemi perfettamente a cavallo tra astrazione, rarefazione intellettuale e dedizione o accensione sensuale.

Dalla postfazione di Laura Caccia

Sono echi di un silenzio invalicabile e dalla conseguente dolorosa assenza di sé e di parole per accedere al mondo che, a partire dalle citazioni in esergo, risuonano nella voce di Doris Emilia Bragagnini, che in Claustrofonia – sfarfallii – armati – sottoluce si muove alla ricerca di sonorità e significati che le consentano di aprire varchi di senso nell’esistere e, nello stesso tempo, di affrontare le chiusure e gli impedimenti che ostacolano il dire. Sono echi che tuttavia non generano una scrittura afasica né una versificazione del tutto pensante, quanto piuttosto riverberano, mantenendola inalterata, quella che appare essere la matrice poetica dell’autrice, nel delinearsi di ogni testo a partire da un nucleo del sentire per suoni e immagini e nello snodarsi dei versi in associazioni inusitate. Venendo allo scoperto, in modo mai scontato e spesso imprevedibile. E facendo i conti con il chiuso, lo sbarramento, l’oscuro, qualcosa che richiede nuovi modi di pensiero e di linguaggio per affrontare in modo autentico i nodi della scrittura e della vita. […] Gli sfarfallii: il leggero guizzare di un’ala, lo svolazzare libero dopo aver sperimentato lo stato di crisalide, l’improvviso battito di un nome, la vibrazione di un senso. Così come lo sfarfallare di una proiezione intermittente, il tremolio delle immagini sullo schermo, il modo distorto di mostrarsi delle cose. E cos’è la lingua poetica se non quella in grado, nella sua distorsione rispetto al linguaggio ordinario, di far balenare tra le pieghe delle sue oscillazioni, l’ignoto chiuso nel suo bozzolo? […] C’è come un’oscillazione quasi ipnotica nei versi della raccolta, nei loro esiti continuamente inattesi, dove ciò che manca si alterna a ciò che appare, lasciando costantemente in sospeso la percezione di dove ci si trovi, per l’autrice come per il lettore. Una fluttuazione tra la pienezza dei sentimenti e la bellezza del mondo delle apparenze a cui non si trova accesso e l’assenza e la chiusura di ciò che si intravede realmente autentico, ma altrettanto inaccessibile. […] Così, scrive l’autrice in alcuni versi illuminanti, «non cercherò la trama – quella sottile – mai / scomparsa attesa di dire le cose», quanto piuttosto «le parole mancanti quelle – vere». Così la poesia può riuscire a parlare la lingua altra che occorre, anche di fronte alle difficoltà del vivere, alle chiusure del senso e all’insufficienza della voce, per accedere all’essenza profonda di sé e del mondo.

Da Claustrofonia – sfarfallii – armati – sottoluce (Giuliano Ladolfi editore, 2019)

Claustrofonia

il muro tace, non risponde più
si lascia guardare angolandosi
in riproduzioni lessicali nei passi
o sfarfallii – armati – sottoluce

ogni tanto un urto di temperatura
differente, a porte chiuse ] tolte le dita
da maniglie ingoiate a sorsi uscite laterali
agglomerate al bolo circolante, contropelle

la risalita dei ricordi sfida il cemento
dell’anima in guardiola, divelta e sugosa
chiaroscuro del Merisi

stretto chicco d’uva fragola come fosse un uragano
moltiplicato a schizzi su pareti in guanti bianchi
divaricate a terra ora
“ … tu aprimi al tuo fiato singultato, viola di Tchaikovsky

*

Settima pagina

si procede con i sandali di gomma
occhi alle chele del passato
passi indietro del continuo pungolare

ne ho abbastanza di metafore seriali
– catenazioni – degli oggetti presi in prestito
il vuoto manca almeno quanto il pieno
di contrappeso vedo le gambe /tagliate/ nella foto

[un quadrettino] unico tassello
di una vita respingente nei polpacci grossi
i figli come spere          smessi             ai lati

ma quella con la bocca chiusa già lo grida
di quante amputazioni parallele mantenga la soffitta
dei cipressi – fuori l’estate sigillava i contorni

*

Dell’indocilità delle rose per esempio

oggi è stato un giorno cardinale
ho fotografato i gatti ho scritto cose che dovevo
per giustezza ho scampato il tempo della fuga
nel salire una sedia a sei metri dal cielo

si allungano le ombre sotto la porta ora
sono cunei d’eterno come certi pomeriggi parrocchiali
della processione e dei petali nei cesti

*

Sonar

c’è un piccolo pensiero roditore
dove vaga lo sguardo prima della futura notte
la domanda “perché dolore mi hai abbandonato
non resta ricordo di me scontato darmi per dispersa

chiedo quando il lutto fosse elaborato non ne ho memoria
è successo sento niente nel torace ho smesso
di pulsare verso un buio circolare lentamente
ammainata spenta senza dirmi una parola

*

Delle avvenute distanze

lo hanno trovato oggi il vicino
hanno sfondato la porta e lo hanno trovato

ho pensato alla conforme aderenza
dei giorni ai giorni, nulla è stato diverso
ogni luce temperatura rumore o schiamazzo
la semina nell’orto l’abbaiare dei cani

lo hanno trovato dopo la porta era sul letto
fuori quando è successo fioriva contigua l’assenza
dai giorni ai giorni, nulla di diverso

*

Oggetto della prassi

resta uno spazio sempre
tra l’essere di ora e la parola
colmato solo poco dall’esistere di sguardo
il rimandare stop del fotogramma
per timore che non abbia buona luce
impressa copertina sulla pagina invisibile
la non rivelazione – da qui all’eternità

 

 

Doris Emilia Bragagnini è nata in provincia di Udine dove tuttora risiede. Suoi testi sono presenti in alcuni periodici online e cartacei tra cui Carte nel Vento a cura di Ranieri Teti, EspressoSud a cura di Augusto Benemeglio, Noidonne a cura di Fausta Genziana Le Piane, in varie antologie (tra cui Il Giardino dei Poeti ed. Historica e Fragmenta premio Ulteriora Mirari ed. Smasher), in blog e siti letterari come Neobar e Il Giardino Dei Poeti (collabora in entrambi come redattrice), Carte Sensibili,  Via Delle Belle Donne, La Poesia e lo Spirito, La Dimora del Tempo Sospeso, Poetarum Silva, WSF, Linea Carsica. Ha partecipato ai poemetti collettivi La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello e Un sandalo per Rut (ed. Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011). Il suo libro d’esordio è OLTREVERSO il latte sulla porta (ed. Zona 2012).

 

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