Nella prefazione ad Assetto di volo (Crocetti Editore, 2006), volume antologico che racchiude quasi tutti i componimenti scritti da Pierluigi Cappello dal 1992 al 2005, Giovanni Tesio si domanda come mai sia stato scelto di iniziare questo percorso riassuntivo dell’opera in versi del poeta cominciando non con Ecce Homo (Comunità montana della Carnia, 1989), la prima raccolta pubblicata dall’autore a soli ventidue anni, e neppure con Le nebbie (Campanotto Editore, 1994), il libro che forse avrebbe meritato di essere effettivamente considerato il punto di partenza del viaggio poetico di Cappello (il quale, però, evidentemente non la pensava in questo modo quando venne pubblicato Assetto di volo). Così scrive infatti Giovanni Tesio:

«Le nebbie merita tuttavia di fare da apripista, di inaugurare un tempo che nei suoi frastagli non ha continuato che a incidere lo stesso solco, ad accudire lo stesso miele, a suggere lo stesso fiele (amâr, amâr, amâr). Nei sonetti di quel libro, infatti, c’è già tutto un mondo: il prato, il vento, il volo […].»

In effetti, se si legge attentamente tra i testi di questa raccolta, si scopre un universo accennato, un nucleo ancora leggermente acerbo di concetti, riflessioni e immagini che troveranno poi più compiuta espressione nelle opere successive dell’autore, da La misura dell’erba (I. M. Gallino, 1988) fino a Stato di quiete (Rizzoli, 2016): già nella seconda poesia del libro, ad esempio, si notano versi come «per la bimba sbandare in giravolte/ – come un’ape – la sua felicità/ è cantare, perché non sa morire.// E sempre vola, perché bruna, i prati:/ li imperla come polline leggero.» in cui preponderante è il campo semantico che riguarda un natura felice e nello stesso tempo tragica e cosciente di una fine promessa e attesa, una natura costituita da figure e immagini docili, quotidiane e piccole ma, nel contempo, ricche di rimandi letterari (che vanno individuati nella poesia delle cose minuscole di Giovanni Pascoli o ancora nel canone della poesia neodialettale non vernacolare e folcloristica, in particolare quella friulana inaugurata da Pier Paolo Pasolini con versi come «[…]I vuardi il soreli/ di muartis estàs,/ i vuardi la ploja/ li fuèjs, i gris.// I vuardi il me cuàrp/ di quan’ch’i eri frut,/ li tristis Domèniis,/ il vivi pierdút.»1).

Proprio questa particolare letterarietà del linguaggio, dei temi e delle forme sembra essere una caratteristica peculiare de Le nebbie, una letterarietà che continua a perdersi in echi di un passato quasi mitico, sacro, antico e che, nel contempo, riesce a confrontarsi con un presente invece molto autobiografico, che vorrebbe essere euforico e vivo ma a volte non può esserlo, e con un futuro che rappresenta l’incertezza di un corpo faticoso e difettoso: così, all’interno della raccolta, si possono trovare versi come «vedo e vivo da due diverse età/ (povere braccia, braccia nazarene/ che un refolo rabbioso può schiodare/ e abbandonare a carità terrene)» oppure «e mi vince a viver quel che sono;/ non più che un bambino, un vecchio ignaro/ precipite Lucifero. Mortale.». Quindi, da una parte il rimando letterario che fa capo a una tradizione che sembra essere, come già sottolineato, primariamente quella neodialettale (Pasolini sicuramente, ma in immagini come «corpi come fango» o «come la pastura che al risveglio/ rende in bocca l’amaro del mattino» si può trovare anche un riferimento alla poetica di terra umida e suolo arido di Amedeo Giacomini, altro grande poeta friulano) ma che non rifiuta anche spunti molto distanti come, ad esempio, gli autori classici e alcuni poeti recenti italiani e stranieri (nei componimenti viene citato il nome di Gozzano e di Goethe), dall’altra un autobiografismo molto forte, un parlare di una carne ferita, della storia di un ragazzo di sedici anni (l’età che Pierluigi Cappello aveva quando fece l’incidente in moto che gli precluse l’utilizzo delle gambe) che, da adolescente che amava fare gare di corsa e sognava di diventare pilota di aerei, si trova ad essere un giovane in un corpo che non gli corrisponde, che lo limita e che lo costringe a guardare l’esistere da fermo, limitandosi ad osservare. Le nebbie del poeta (da cui il titolo della raccolta) sono primariamente proprio questo, quel senso di sopraffazione, di chiusura forzata in sé stessi, quel non poter più accedere alla chiarezza e alla vastità del cielo, al volare che consentirebbe di guardare la nebbia dall’alto, di superarla. Quando Cappello scrive «[…]ma tu/ che resti altero, in piedi come un bronzo/ china una volta il capo, guarda attorno/ e dì se è sole o notte questo giorno» oppure quando fa continui riferimenti a uccelli che vede planare dalla finestra della stanza in cui e costretto a restare, questo vuole mostrarci, la condizione di chi non sa determinare il tempo del vivere, di chi non sa venire a patti con il futuro, il presente e il passato e neppure sa distinguere questi tre momenti fra loro, perso nelle nebbie che non hanno dimensione, che non danno riferimenti e che consentono solo di smarrirsi, di non sapersi più trovare.

Ecco che allora compare in maniera delicata e quasi sottovoce anche il tema della memoria e, conseguentemente, quello dell’identità individuale e collettiva, argomenti che saranno preponderanti soprattutto in raccolte successive del poeta come Mandate a dire all’Imperatore (Crocetti Editore, 2010). Una memoria intesa come ricostruzione di un passato affettivo e concreto, di «Questa casa contadina» che forse è il luogo natio del poeta a Chiusaforte, il luogo dei suoi primi passi, ma che di certo «[…]è l’eterna domanda/ della grande umiltà ch’è la memoria». Un ritrovare il già vissuto e il già trascorso che avviene anche attraverso il contatto fisico di mani e corpi, mediante uno studio attento e metodico della carne che si sgretola, invecchia anche in un corpo giovane, non sa resistere agli anni e alle stagioni: così, ad esempio, la figura della nonna, la madre della madre del poeta, viene ritratta e rievocata attraverso immagini come «Delle mani ricordo i dorsi magri/ bruni, stretti alla roncola che cala/ dal tuo viso le pieghe, i tratti agri/ di montanara, l’alta, severa ala// […]» oppure «perciò di notte è facile sognarti/ in preghiera, coi palmi controsole». È però nel penultimo componimento della raccolta, forse la poesia più ingenua del libro nel suo voler definire esplicitamente una poetica, che trova spazio una spiegazione, un mostrare il vero legame che sussiste tra lo scrivere dell’autore e il chiedersi del tempo, dell’invecchiare e dei diversi momenti della vita; Cappello infatti in pochi versi settenari dice: «E scrivo; tuttavia./ E canto controtempo/ se cerco l’armonia:// maledizione forse/ è secondarlo il tempo/ rincorrerne le cose.» Un ragionare dunque sulla memoria che ha in sé una spontaneità e una preziosissima ingenuità che è lontana dalle riflessioni molto dense e più studiate sul rapporto tra il ricordare e il fare storia di alcune delle raccolte successive (in cui appaiono evidenti le meditazioni che l’autore ha fatto, ad esempio, sugli scritti filosofici di Paul Ricoeur).

Della forma metrica, analizzando l’intera opera di Cappello, si può dire lo stesso, ovvero che alla precisione (per niente scolastica né tanto meno abile per essere abile) di forme chiuse dei primi libri (ne Le nebbie è prevalente l’utilizzo del sonetto, seppur molte volte con assonanze al posto di rime perfette, e l’uso dell’endecasillabo e del settenario, i metri per eccellenza della tradizione poetica italiana) si sostituisce nello scrivere più maturo dell’autore una versificazione più aperta e libera duramente conquistata e sicuramente esercitata e allenata; infatti, la poesia di Cappello, sia essa in endecasillabo o meno, dimostra sempre una cura artigiana della forma, un meticoloso riscrivere e lavorare instancabilmente, con concretezza e maestria. Uno degli aspetti più interessanti de Le nebbie è, inoltre, la sonorità e la musicalità dei versi, tanto più che in esse sta molta parte di quell’ idea di morbidezza (e, a volte, di aridità) che i componimenti sanno trasmettere. Pierluigi Cappello, nel suo romanzo Questa libertà (Rizzoli, 2013), racconta di come la parola, e con essa il primo inizio del suo fare poesia, sia stata per lui inizialmente quasi un gioco per evadere, per allontanarsi, per riappropriarsi di sé durante i giorni di convalescenza in ospedale:

«[…] l’altra si animava di un’attitudine creativa: mantenevo fisso un sostantivo, un aggettivo o un verbo e provavo ad accostare altri elementi per il puro e semplice gusto del gioco. Era la curiosità di un bambino che lancia un sasso contro un vetro per vedere l’effetto che fa.»

Negli incastri di allitterazioni e rime imperfette di versi come «[…] dormono su strami/ di suoni, sordi – là fuori – ai miei stigmi » c’è tutta una dimestichezza evidente con la dimensione più giocosa e sonora del linguaggio e una capacità di costruire una fluidità di parole attraverso l’uso sapiente degli accenti e delle figure retoriche con lo scopo di dare forma ad una leggerezza che sappia anche essere contrastante rispetto ad un significato del componimento magari drammatico e duro.

Le nebbie, dunque, rimane una raccolta di grande significato che, nonostante riesca già a dire tanto anche considerata da sola, è capace di mostrare ancora di più se interpretata in prospettiva e dunque se inserita e valutata come uno dei tanti momenti di valore che costituiscono, in un continuo ritornare, riprendere e rielaborare, il percorso circolare dell’opera poetica di Pierluigi Cappello. C’è un componimento in particolare, però, che probabilmente spicca più degli altri nel libro ed è l’ultimo, il conclusivo, che inizia con una citazione di Goethe. Forse per il contenuto profondamente diverso rispetto alle restanti poesie della raccolta, forse per le riflessioni implicite sul linguaggio e sul valore del simbolo e dell’astrazione che nascono dal confronto tra le lettere e la moneta, questo componimento riesce a racchiudere in sé una vastità straordinaria di problematiche, mettendo in luce un percorso della memoria finalizzato all’analisi del presente e alla costruzione del futuro (come sarà, poi, in Ombre, una delle più notevoli e interessanti poesie del libro Mandate a dire all’Imperatore). Così, nell’immagine finale di una carta di credito di plastica che ha sostituito l’oro e il bronzo delle monete, prende forma tutto il constatare una perdita e una sconfitta, il sentirsi inattuale e inadatto dell’autore, la difficoltà e la complessità antropologica e poetica della contemporaneità.

1. Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi 1975, «Guardo il sole/ di morte estati,/ guardo la pioggia,/ le foglie, i grilli.// Guardo il mio corpo/ di quando ero fanciullo,/ le tristi Domeniche,/ il vivere perduto.»

 

 

Giovane, giovanissimo – e son vecchio –
fermo a guardare novembre che corre
mi cerco e mi trovo – fuori è uno specchio –
prato che muore in faticoso stuolo.

Vedo e vivo da due diverse età
(povere braccia, bracci nazarene
che un refolo rabbioso può schiodare
e abbandonare a carità terrene)

e se, per un momento, colgo il volo
perso a perdermi in nuvole di suono
un turbine perifero mi assale

e mi vince a viver quel che sono;
non più che un bambino, un vecchio ignaro
precipite Lucifero. Mortale.

***

Ve’ che ronza la nebbia e si rapprende
alle cose e ai corpi come fango
o come la pastura che al risveglio
rende in bocca l’amaro del mattino.

Battono ombre nel niente cinerino.
Incerto come quegli incerti veglio:
loro vagano in alto sciolti in file
in cerca di una torre o un campanile

io resto; stanco di scuoterti invano,
stanco di muovermi invano, non piango
– meglio lasciarmi apatire – ma tu

che resti altero, in piedi come un bronzo
china una volta il capo, guarda attorno
e dì se è sole o notte questo giorno.

***

Non tace, parla di distanze estreme
questa casa prossima a una svolta:
io l’ho vista per la prima volta
sotto cieli torbidi e umidastri.

Questa casa non ha damaschi ricchi
alle pareti, ma calcine e tetri
ragni che ad ogni spiffero fibrillano
come fossero stelle velenose.

Questa casa contadina mi parla
da ogni cavità, dalle imposte smosse
dalle gronde slogate, dalle crepe

e da ogni altro indizio di scomparsa.
Questa casa è l’eterna domanda
della grande umiltà che è la memoria.

***

Stanca la gola – è stanca di gridare –
per la bimba sbandare in giravolte
– come un’ ape – la sua felicità
è cantare, perché non sa morire.

E sempre vola, benché bruna, i prati:
li imperla come polline legger.
Poi, se uno guarda, se le parla,
lei si arresta stupita e per stupire

riparte, si riaccende in nuovi fuochi.
Così come la guardo io è vicina
pure lei non sa, alta sui ricordi

lei vive nel presente: per cantare.
Guardarla ancora? So che ad ascoltarlo
il cuore torna pompa muscolare.

***

“Ho letto delle pagine in cui Goethe
scrisse d’aver lentamente accumulati
dei piccoli tesori di parole;
spicciolo per spicciolo, a poco a poco,
dei veri e propri scrigni colmi d’oro;
classica e limpidissima metafora
che così avvicina lettere e monete
lettere d’oro, d’argento e di rame
mezzi accuratamente graduati
tra la genialità e il destinatario.
Adesso l’inventario è sconfortante:
impraticabile l’uso dell’oro
e molto, molto rari argento e rame
ciascuno, se può, tacita le questue
con l’acmonital, per le compravendite
arrangiandosi con le banconote
o degli assegni, che sono più veloci;
chi rimastica un po’ di economia
con le carte di credito di plastica”.

 

 

 

 

Pierluigi Cappello è nato nel 1967 a Udine ed è vissuto a lungo a Chiusaforte (UD). All’età di sedici anni, a causa di un incidente con il motorino, si è trovato precluso l’utilizzo delle gambe. Dopo aver studiato Lettere presso l’Università degli Studi di Trieste, nel 1999 assieme a Ivan Crico ha ideato e diretto per diverso tempo La barca di Babele, una collana di poesia, edita dal Circolo Culturale di Meduno, che accoglie autori noti dell’area friulana, veneta e triestina.
Ha pubblicato i seguenti libri di poesie: Ecce homo (Comunità montana della Carnia, 1989), Le nebbie (Campanotto Editore, 1994), La misura dell’erba (I. M. Gallino, 1988), Amôrs (Campanotto Editore, 1999), Dentro Gerico (La barca di Babele, 2002), Dittico (Liboà editore in Dogliani 2004), con il quale ha vinto il premio Montale Europa di poesia, Assetto di volo (Crocetti Editore, 2006), con il quale è stato vincitore del Premio Nazionale di Letteratura di Pisa (2006) e del Bagutta Opera Prima (2007), Mandate a dire all’imperatore (Crocetti, Milano 2010), col quale ha vinto il premio Viareggio-Repaci, Azzurro elementare (Rizzoli, 2013) e Stato di quiete (Rizzoli, 2016).
Nel 2008 ha pubblicato la sua prima raccolta di prose e interventi intitolata Il dio del mare (Lineadaria, 2008) e, nel 2013, ha pubblicato con Rizzoli la sua prima opera narrativa Questa libertà con la quale ha vinto il premio Terzani 2014 e, nello stesso anno, ha pubblicato un suo libro per bambini Ogni goccia balla il tango (Rizzoli, 2014).
Oltre ai premi già segnalati, nel novembre 2012, al palazzo del Quirinale, ha riceve dalle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il premio Vittorio De Sica 2012 per la poesia, nel 2013 l’Accademia dei Lincei gli ha conferito il Premio «Maria Teresa Messori Roncaglia ed Eugenio Mari» per l’opera poetica e l’Università di Udine gli ha conferito la laurea honoris causa in Scienze della formazione.

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