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Dall’Annuario di poesia 2015
 

La realtà è fatta di cronaca e di storia. Accadono fatti insopportabili.
Dopo l’attentato perpetrato contro la sede di Charlie Hebdo è stato inevitabile approfondire questo tema: parola e realtà (poesia e realtà). Soprattutto per pensare in quale rapporto stessero i due poli del dilemma e se nella parola fosse lecito riporre qualche speranza residua di resistenza al male organizzato: poiché tale ormai si presenta talvolta la realtà, imbevuta o percorsa da forze avverse che hanno il volto dell’integralismo religioso e degli estremismi. Spesso la realtà non è quella desiderata o descritta da una poesia lirica tout court. La questione preliminare cogente ha riguardato da subito la posizione della parola poetica, se non della sua funzione: di garante e custode della bellezza, del versante buono della realtà, trincerata nel suo hortus conclusus; oppure di allarmata testimone di quanto sta accadendo.
Il rischio, nel primo caso, è il distacco snob, la lontananza dal mondo; nel secondo, nel caso della poesia schierata in prima linea, la presunzione infruttuosa, l’inefficace illusione di poter modificare fatti immodificabili, sfuggiti a ogni controllo razionale che non sia l’applicazione del malo ingegno. Questo ci piace, molto, della poesia: la sua ragionevolezza, la sua umanità. Ben prima dei fatti di Parigi ciclicamente si era imposta tale domanda, che mi insegue ogni volta che attraverso Piazza della Loggia nella mia città, Brescia. La strage del 28 maggio è rimasta impunita per quarantuno anni.
Da pochi giorni i giudici della Corte di assise nel processo di appello bis hanno condannato all’ergastolo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte.
Appena dopo lo scoppio, qualcuno aveva ordinato di lavare il selciato con gli idranti per cancellare le prove. E prima di Piazza Loggia ci fu il sequestro Moro e altri attentati secondo la strategia della tensione in quegli anni di piombo che vissi a Padova e, quando il secolo e il millennio nuovi sembravano alimentare le nostre attese di un’era di rinascita, l’11 settembre ci precipitò nello sconforto. Dopo il crollo delle Torri Gemelle tutto ci parve inutile, vano: perché tutto si rivelò innaturale e precario, come era stato dimostrato. Come può la poesia tenersi lontana dalla realtà? Macinare parole all’ombra dei disastri?
La poesia non può imperterrita continuare a cantare albe e tramonti se accadimenti traumatici premono e chiamano: quelli che Celan definisce gli accenti gravi della storia. La poesia risente di ogni calo di umanità, non perde di vista il livello di guardia. Deve attraversare i campi minati, raccogliere i vivi, le lettere dei morti. Deve ricongiungere, sollevare, mantenere. Assiduamente, con continuità, non può esimersi dal dire: che è il suo fare. Vogliamo credere che nella parola abiti un’essenza inscalfibile di verità, di dignità. Nel linguaggio della poesia sopravvive la parte cosciente dell’umanità. E l’azione della poesia consiste soprattutto nel dire l’essenziale, ciò che è indispensabile, descrivendo la realtà. La poesia è sempre etica e civile: anche, naturalmente, quando non tratta temi politici. Forse è sempre eversiva. Non ammette inganno, ingiustizia, prigionia, barbarie. Le poesie non sono sfogo e slancio né, come scrive Franco Fortini, «fiori sulle catene», abbellimento di una realtà immutabile.

Mario Luzi, più di ogni altro propenso ad apprezzare nel nostro martoriato Novecento l’hic et nunc e a distinguere il «giusto della vita» in un turbinare di frammenti che forse sono detriti o forse spore, nella sezione Muore ignominiosamente la repubblica della raccolta Al fuoco della controversia ci mostra la storia, lo snodo difficoltoso delle epoche, come un procedere imprevedibile, fondato non sul passaggio rituale del testimone in un processo di consequenzialità, ma sul disguido dei possibili, slegato dal filo hegeliano dell’idea:

Non c’è rito struggente del ricambio, non c’è scontro.
Solo l’angoscia del disguido.
E in quel disappunto della storia,
paura, sono certo, paura dissimulata appena,
un fuoco di volontà frustrata
nella dura paralisi si sfrena a freddo, deflagra,
come può, in qualche folgore demenziale.

In Per il battesimo dei nostri frammenti, descrivendo Aldo Moro trovato morto nel bagagliaio della Renault 4 in via delle Botteghe Oscure come un politico intelligente e paziente sopraffatto dall’impazienza della brutalità, dalla grossolanità della violenza, sembra denunciare la vittoria della materia sullo spirito:

Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui –
come negarlo? – quell’abbosciato
sacco di già oscura carne

Molti sono i testimoni che qui potremmo addurre. Come non pensare a Giuseppe Ungaretti, capace sul Carso di scrivere parole piene d’amore; o a Vittorio Sereni e al suo Diario d’Algeria. Continuamente
la poesia si misura con la realtà più cruda. Oltre a radiografare il male, la parola dà però anche forma alla nostra idea di mondo bello, giusto e libero, come vorremmo che fosse. L’alternativa alla parola è il silenzio, che ci sembra equivalente all’assenso, a una resa.

da La perfezione del giorno

(28 maggio)

Prego per i miei morti,
coltivo la ferita
O voce che riesplodi
dai portici, mia corona di spine.
Vedo le pietre battute dai lampi,
da una febbre che non dura.
La libertà ha un accento di confine.

(la tregua)

Si sono avventati ai tavoli nelle miniere
sugli astri e dovunque hanno banchettato
tutti i letti sono stati occupati
tutti i confini segnati, percorsi
i sentieri, le medaglie assegnate,
le messe celebrate, le messi raccolte,
i loculi venduti, i misteri sciolti.
Perché allora continuano a sparare
dal muro di cucina
dalle parti di Baalbek?

(la porpora)

La bambina aveva un cesto di sassi
e una corona di spine,
aerei a bassa quota sorvolarono
Gerusalemme, esplosero i bar
e i magazzini di Tiro,
l’immenso color porpora
invase la regione.

(la piscina)

Di anno in anno i villeggianti
sono dimezzati, difficilmente
si potranno riparare i tavoli,
ancor meno le mani e i volti.
Eravamo qui quando la radio
annunciò il crollo delle torri:
i giorni inconsapevoli erano finiti.
Gli uomini soli guardano con insistenza
la vita degli altri, parlano con lingua ispessita.
Salpano in sordina battelli e scafi.
Ogni cosa passerà.

da Nel vento millenario

(l’orlo)

Solo nella piazza dove caddero
le vittime la memoria agisce:
volavano le carni alte sui tetti,
era la fine di maggio, già quasi estate,
arrivò l’urlo nel cortile del ginnasio
e tutto venne lavato,
si voleva cancellare una prova,
negare se possibile l’evento.
Ma noi ricordiamo per sempre
e lo diciamo ai nostri figli ad ogni primavera
che Alfredo era un bambino di cinque anni
e la sua mamma insegnante rimase
distesa sul selciato,
che la moglie di Pinto
morì giovane impazzita di dolore.
Non siamo stati più gli stessi di prima:
anche chi non ha visto la scena
ha sentito l’odore nell’aria
e non vuole perdonare,
ogni anno scolari in divisa
infilano un fiore nella pietra.

Alessandra Giappi è nata a Brescia nel 1959, si è laureata all’Università di Padova con Silvio Ramat. Insegna Antropologia Culturale alla Libera Accademia di Belle Arti di Brescia – LABA e tiene seminari di poesia contemporanea nella Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica. Nel 1997 ha curato, su incarico del Comune, la parte artistica del “Parco dei Poeti” a Brescia.
Ha pubblicato: La forza delle cose, in Sette poeti del Premio Montale (Scheiwiller, Milano 1987); Il fuoco e la misura (LaQuadra, Brescia 1992); Nel vento millenario (Facchin, Roma 2002); Il canto della terra
(Edizioni L’Obliquo, Brescia 2005). In fase di stampa La perfezione del giorno (Aragno, Torino). Si è occupata del mito e del sacro nella poesia italiana contemporanea.

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