L’analisi di un titolo è il primo passo verso una facilitazione ermeneutica che costruisca a monte le sue recinzioni ma anche (e soprattutto) i suoi limiti; metteremo immediatamente da parte la ricerca etimologica del termine per tentare, piuttosto, di rintracciare sì quel malfunzionamento che la scelta titolo testimonierebbe, ma non in quanto status inamovibile del soggetto bensì come fase transitoria; insomma pervenire al ‘superamento’ del titolo, che è inoltre superamento della scrittura e dell’opera, già codificata dall’autore. Anzitutto s’intende distonia del soggetto o del testo? Rispondiamo immediatamente: entrambi, poiché nella scrittura di Barbieri essa si manifesta non a seguito di una lacerazione, ma è essa stessa lacerazione in atto della comunicazione. È un soggetto che brancola nel buio, privo di ogni possibilità di scambio con l’altro, tant’è che il messaggio di Barbieri torna sempre al mittente, girovagando nella pagina come una mosca sul vetro. La voce difatti si fa sempre più affievolita pagina dopo pagina, fino a diventare eco lontanissima del suo autore, che esplicita l’impossibilità di ricomporre il dipinto frantumato della parola e di stabilire il contatto con l’altro: «nell’adesso dell’adesso nessuno e qualcuno scorrono,/ nessuno vede qualcuno». Il tentativo di congelare l’istante, lungi dal consentire l’accesso a una sacralità della parola tale da collocare la voce dell’autore su altezze vertiginose – in poche parole e formalizzando il tutto, valicando i confini di accesso alla ‘lirica’ -, si risolve in un movimento di rotazione sul mittente; malfunzionamento del sistema conativo che non perviene allo smarrimento totale ma a un ‘rimbombo intimo’ che può ossessionare quanto estasiare il soggetto, ben consapevole – inutile sottolineare la dimestichezza di Barbieri con tutto ciò che concerne la ‘parola’ – che ogni inciampo è da lui stesso provocato.

Il poeta conosce l’insensatezza di ogni ricerca attraverso la poesia, di una costruzione illusoria del senso: a monte vi è sempre una ‘macchina’ che non può generare che fallimenti, il linguaggio – di un sé tra sé, di un sé agli uomini -, e già l’autore lo chiarisce in partenza: «se cerchiamo di capire il messaggio, eccoci di colpo/ persi», e difatti non si otterrebbero che «allusioni a un’impressione di verità». Allora cosa giustificherebbe la scrittura se non la sua stessa perdita?: «quando ricerchiamo, eccoci di colpo persi, fragili/ e lontani e dimenticati», e qui crediamo non avvenga una denuncia dell’autore quanto il pronunciamento di un desiderio. Allontanarsi da sé scardinando l’Io ‘nella’ scrittura è possibile soltanto allontanando il sé ‘dalla’ scrittura; ciò equivarrebbe a fotografarsi allo specchio, ma a uno specchio posto a grande distanza da noi, tale da miniaturizzare la nostra figura: Barbieri ritrova l’«io nel campo delle cose lontano lontano che incontra/ forse me», dove possiamo intendere il ‘campo’ nella valenza di campo ‘cinematografico’, in cui il soggetto guarda sé stesso nel suo doppio ‘virtuale’ riprodotto allo specchio. È in questa massima proiezione che il poeta può guardare alle cose senza più alcuna distanza, immerso in un gioco di riflessi che rivelano un mondo certamente illusorio, evaporato, ma in cui porsi in compresenza di tutti gli elementi esistenti che investono e bruciano lo sguardo: «ma ci incendiano le cose ugualmente lentamente/ le cose ancora ripetono tranquillamente terminano».

Se non è possibile prescindere dal ‘discorso’ per testimoniare l’incomunicabilità anelata, il tentativo può svolgersi solo al di là della poesia: «non possiedo le parole per discendere la dove/ le parole non ci servono più, le parole per/ lasciare ogni parola». Paradosso del vuoto: per accedere al vuoto di senso, al «nero pieno del sangue freddo del fondo», è necessario abbandonare la parola. Perduta la parola, come comunicare poi a sé e al lettore – poiché, in ogni caso, se esiste il libro esiste anche il lettore – la propria discesa nell’abisso se non guardando il proprio riflesso giocare al proprio posto, guardarlo mentre «si sta sentendo svanire», mentre ci priva del nostro ruolo in una narrazione che ormai non è più possibile raccontare ma solo osservare nel suo svolgersi? Tutte le immagini adesso acquistano la rapidità di flash amalgamati tra loro e la vita che avviene è riprodotta in un cinema impazzito che non dà adito a rielaborazioni: «tutto un mondo troppo lirico per quello che possiamo/ a quest’ora trattenere»; in questi versi Barbieri esprime la propria tragedia della vita che frana su se stessa, in una visione del mondo che è come un’emorragia in cui «non riesce a trionfare nessuna vita specifica», ora che le cose sono mixate tra loro (uso appositamente questo termine del linguaggio musicale) e non vi è modo di dare un riordino se non nel «lago del ritmo» della parola. Andare alla ricerca di quella musica insita nella ‘nominazione’ delle cose coincide finalmente con l’uscita dai dettami della narrazione e della poesia stessa, smarcata da Barbieri con uno stile personalissimo che afferma con forza l’esistenza – in questo confusionario e fin troppo prolifico panorama poetico – di un modo di fare poesia del tutto svincolato da logiche preconfezionate che, proprio mentre denunciano il ‘superamento’ della poesia, non fanno che riaffermarla in vesti codificate, rialimentandola piuttosto che esaurendola nelle «parole sgonfie» a cui perviene Barbieri; non la sparizione della ‘parola’ ma il suo lento decadimento, un appassimento della comunicazione tale da sciogliere la tensione insita tra l’io e il mondo; è insomma una poesia che pur dipanandosi in orizzontale conserva una traiettoria ora in alto ora in basso, evitando di decadere nei pluri-premiati sentimentalismi e nelle pacificazioni, raggirando e parodiando stilisticamente le già sature posture poetiche odierne, adocchiate da Barbieri solo in fase di sorpasso. Da qui è tutto un nominare per riconoscere l’’altro’ così come avvenne in una mitica ‘prima volta’, in una dichiarazione del vuoto che non è più denuncia né resa ma gioioso distacco, nell’elasticità della differenza dei due termini, l’io e il tu, se infine poeta che non può che decretare il buio sul mondo, «la fine del gioco».

[Marginalia:

È la prima volta che finita la recensione di un libro ne consigliamo vivamente la lettura. Potremmo anche dire: magari ogni anno si sfornassero più libri come questo. No, perché libri come questo escono una volta ogni decade, per farci rinfrescare un po’].

 

da Distonia (Kurumuny, 2018)

 

se cerchiamo di capire il messaggio, eccoci di colpo
persi eccoci nuovamente figure lontane, sintomi,
allusioni a un’impressione di verità, se cerchiamo
di comprendere il messaggio, di cogliere il gesto, eccoci
improvvisamente persi, istantaneamente figure
lontane, lontane, fragili, lontane figure fragili
di incomprensibilità, quando cerchiamo di capire
e non ci siamo, non siamo vivi non restiamo veri
non viviamo, non restiamo nemmeno cerchiamo più
quando ricerchiamo, eccoci di colpo persi, fragili
e lontani e dimenticati

le cose tranquillamente si ripetono ci incendiano
ci ripetono si bruciano ci fanno ballare morire
dividere incominciare si bruciano le cose
si fanno di lenta cenere ci bruciano ci bruciano
noi crediamo di conoscere quelle parole segrete
con cui si controlla il mondo quelle parole di cose
con cui le parole vincono che il mondo le obbedisce
ma ci incendiano le cose ugualmente lentamente
le cose ancora ripetono tranquillamente terminano

pam! siamo entrati nel mito di colpo
è argento e luce d’oro, è gesto
registrato nel sasso, esposto all’occhio
che corre da un divo all’altro, accarezza
le carni belle e dolci di statue
che hanno voce allo sguardo, forse al tatto
indiscreto, all’olfatto, al sogno,
e stanno alte sopra le cose, cose
esse pure, ma fremito insopprimibile
di Dio, quel Dio che stringe
e incendia e non perdona

fossero solo parole quelle che scrivo nei versi
sugli schermi del computer, fossero solo diversi
modi per formalizzare gli ondeggiamenti perversi
del senso, fossero solo tracce di cuori dispersi
in un viluppo invincibile di viscerali universi
del dolore o del piacere, fossero nomi riemersi
dalla palude dei visceri inconsci, fossero versi
che ti parlano, che dicono proprio a te quel messaggio
che altrimenti a te nessuno direbbe, fossero versi
chiari, piani, di parole, non accenni controversi
di sentimenti indistinti, non sentimenti dissolti
nel lago del ritmo, colti vagamente di passaggio

riesco a mettere nei versi solo parole già usate
usate, sgonfie, sgualcite, parole raffazzonate,
qua e là sdrucite, qua e là persino scolorite, vecchie
occasioni d’affezione, solo parole già usate,
meglio male utilizzate, magari persino sporche,
usate, sgonfie, sgualcite, mi piacciono se macchiate,
pesanti del loro uso, raffazzonate, nei versi
brillano come carciofi, scintillano come rape,
si distinguono, distinguono l’illusorio dal vivo,
solo parole già usate nella polvere dei versi,
parole sgonfie, che ridono in mezzo ai denti

questa è la fine del gioco ci siamo detti è la fine
del nostro gioco è la fine del giorno la nostra fine
questo è il gioco della fine ci siamo detti è nel gioco
che conosciamo la fine che accettiamo il gioco della

 

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