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le parole sono l’alba. l’alba è coniglio. corre davanti all’auto. bestiola impaurita. manda avanti le gambe e il muso. tutto questo è qui. sono sveglio da tanto. prima le maniche del maglione alla bocca. il caffellatte. i biscotti. a volte il pane. mi arrangio l’uscita per il giorno. l’alba fredda a metà ottobre. ai morti avremo nebbia. senz’altro il vento delle montagne a tagliare il volto. 5,50 timbrato il cartellino. il cancello alle spalle. Il corridoio al buio. luci si accendono di colpo. giacca e borsa nello spogliatoio. mi muovo. il corridoio al freddo. il reparto e le macchine. macchie scure cadono dal soffitto. dieci minuti. parte il rumore. Il giorno è giorno tra tanti. succede in fretta quel vuoto senza parole. i gesti nel significato. non arriva nulla più in là di noi.”

Basterebbe un inizio, quest’inizio sempre uguale, di giorno tra tanti, quel vuoto -volto- senza parole, la muta ripetizione del gesto fabricante parole, dense di significazione (poiché senza emittente), a corrispondere il fluire mimetico della morte nella vita, nella lingua che lenta ma inesorabile si scarnifica, in quanto“la vita nelle parole è un male raggiunto” .
Dicevamo l’alba, secondo nome dell’autrice (omesso nel frontespizio) che frammento dopo frammento si dissolve, come assorbita dal resto, dal paesaggio interiore (labirinto fatto di spogliatoi, corridoi, interstizi con macchine automatiche, armadietti) -anch’esso in sparizione- e dal testo: bestiola impaurita e paura che muove e dirige l’auto(-ma) verso l’alba (dei morti viventi), delle parole morte, “le cose morte sono voci che non riescono a parlare”; un’alba al maschile, un lavoratore asessuato -più che trans-gender- che incorporato si replica in voci -già estinte- presenti solo in quanto inascoltate, inaudite nel vuoto pneumatico dell’estasi meccanica, del rombo assordante della fabbrica, per cui “sentire parole intere no”.
Eccoci immersi nella tensione intrinseca il linguaggio, nella sua sparizione nel momento della sua condivisione: è proprio l’alba del linguaggio fonico, come ipotizzato da Bachtin, la nascita della parola come gesto fonetico e immagine sonora dovuta alla necessità di coazione dell’uomo nel processo “produttivo”, fondamento della comprensione, del rapporto e della ricreazione continua del mondo, quindi dell’ideologia, a venire meno nel processo produttivo della fabbrica descritto dall’autrice. Nessuna sfera intima di reciprocità e riconoscimento nell’altro, ma anzi un privato deprivato, in quanto privazione, nessuna necessità di comunicazione, ma la perdita di senso della lingua comune. E cosi anche la scrittura nel suo farsi processo di poiein, di manipolazione e ricreazione, assume la forma del suo processarsi in quanto illusione di realtà, rivela la sua inefficacia, la sua desolazione monadica.
Da cui il titolo di questo lavoro, i necrologi, non come elogium, ma da intendersi forse come “discorso circa la morte del discorso”, muta voce del corpo isolato, alienato, quando non definitivamente dismesso della condizione contemporanea.
 
Nove prose da “I Necrologi” (La Camera Verde, 2017)
 
le braccia abbiamo ferite. bruciature portate con magliette. siamo una pelle che ci sta dentro. alle 9 mi ricordo i mandarini la mela. il caffè lungo. o il the. nel the tanto zucchero. le macchinette del liofilizzato e quelle coi dolci. brioche a 60 centesimi di euro. al supermercato 6 con 1 euro e 20. oppure cioccolato. 1,50 il fondente di 100 grammi. la pausa dai 5 ai 7 minuti. la ritirata al gabinetto.
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alle 10 le ossa. più o meno dolore. scricchiolo. il ritmo sale. calcolo dei pezzi appena fatti. il momento di accelerare. da una macchina all’altra. la fretta stringe il corpo a qualcosa. carichi e togli. ricarichi e limare. 4 per volta su una macchina. 8 su due macchine. le orecchie capiscono i rumori. le voci alte. arrivano a colpi. sentire parole intere no.
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in fondo al vecchio cortile una stanza. vassoi confezionati messi nello scaldavivande. riso o pasta. carne o merluzzo. una terza scelta. la fame spacca. due pani. la frutta. si ritorna. timbro di nuovo l’entrata. stare alle macchine un po’ prima. non prendere ritardo. di nuovo voci senza parole da capire. si capisce chi grida. uno deve fare meglio. una cagna di voci.
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12,30 calcolo. i pezzi pronti segnati. segue calcolo del tempo. contare per i guasti. sulla scheda nome e numeri. i numeri seguono ai numeri. i pezzi e il tempo. il calcolo a mente. se tornano i pezzi fatti vai tranquillo. altrimenti guadagnare i secondi caricando in fretta. evitare il disastro. non sbagliare.
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la sirena prende fuori. dentro stanno altri. le macchine partite di nuovo. le maniche del maglione con tracce di nero. macchie di olio sulla maglietta. il maglione abbastanza caldo. la prima sferzata dell’aria. un po’ di fastidio. c’è odore di alberi in cortile e odore di benzina. necrologi. i necrologi di niente. niente da capire. adatti al tempo.
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giovani non ci si pensa vada tutto in vacca. bisognerebbe scappare prima. sono i pochi soldi o gli affetti che frenano. si scappa con la testa, ma lanciando le macchine come se la vita la tenessero loro incrostata dentro. un pezzo per volta viene quest’altra vita. diventare ferro non si riesce. sai sempre qualcosa che non sapevi. giorno per giorno impari com’è vivere un solo giorno. non guardare troppo in là. sono i nostri resti umani. sono queste cose appese a un armadietto. un blu che cura gli occhi. li lascia non ancora ciechi.
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gli spogliatoi alcuni hanno i ganci alla porta. il lavandino grigio di pietra. il sapone nel barattolo per grattare via il grasso delle macchine. sono con le maniche alzate. porto in bocca un sapore di scatolette. mangio in piedi pane e tonno. bevo acqua come si beve la sete. pausa non consentita, ma mi fa male un piede. passo sotto le telecamere e mi vedono. dirò dei cerotti. li tengo nella borsa con un ricambio e la maglia infeltrita. i cerotti per un dito che sanguina. non ti tolgono la scarpa. il ferro nella scarpa è il peso nei piedi.
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si rompe una macchina. i meccanici arrivano come una troupe del telegiornale. andare via subito. ti danno un’altra macchina o vai a pulire in terra. non stare mai fermo. pagano ogni minuto. i nuovi li mettono a togliere ragnatele, a vuotare i bidoni. le donne a pulire la mensa. lavare le piastrelle nei corridoi. i molti tempi della fabbrica sono veloci. li creano con la voce grossa.
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le cose morte sono voci che non riescono a parlare.
 
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Nadia Agustoni (1964) scrive poesie e saggi. Suoi testi sono apparsi su riviste, antologie, lit-blog. Del 2017 sono I Necrologi, del 2016 è Racconto Aragno, del 2015 Lettere della fine Vidya e la silloge [Mittente sconosciuto] Isola Edizioni; del 2013 è il libro-poemetto Il mondo nelle cose (LietoColle). Una silloge di testi poetici è nell’almanacco di poesia Quadernario (LietoColle 2013). Nel 2011 sono usciti Il peso di pianura ancora per LietoColle, Il giorno era luce, per i tipi del Pulcinoelefante, e la plaquette Le parole non salvano le parole, per i libri d’arte di Seregn de la memoria. Del 2009 la raccolta Taccuino nero (Le voci della luna). Altri suoi libri di poesie, usciti per Gazebo, sono: Il libro degli haiku bianchi (2007), Dettato sulla geometria degli spazi (2006), Quaderno di San Francisco (2004), Poesia di corpi e di parole (2002), Icara o dell’aria (1998), Miss blues e altre poesie (1995), Grammatica tempo (1994). Vive a Bergamo.

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