“Péue è il senhal della bambina bianca. Il suo nome-suono prenatale, pregrammaticale, prima di ogni lettera e del suo vagito. Pe sta per ‘bocca’, l’organo della parola, organo del nutrimento e del respiro. Una bocca aperta, con un dente in alto. La sua pronuncia forte (p) o debole (f) segna il parlare o il tacere. Secondo la sua prima forma pe è formata da una kaf che ospita una yod. All’interno di pe, nel suo bianco, balugina una bet, quella di bereshìt, la prima parola della Torà. Pe è la Torà orale.
Tra i suoi molteplici richiami, Pe presenta aspetti opposti: la parola è salute o malattia, cibo o veleno: il riscatto e la liberazione pedùt, ma anche il peccato, peshà, celato in essa come «un serpente che colpisce e poi ritira la testa verso il proprio corpo»(Zohar).
Pe è la bocca di Mosè che parlava con Dio non attraverso sogni e visioni, ma ‘bocca a bocca’ (Numeri 12,8). Il suo numero è Ottanta. Riferita a Dio è la bocca di Dio, quindi il suo Verbo.
Nascita ed estinzione hanno in comune una bocca (pe) che si apre e si libera del respiro. Raccontare (sach) è solo una piega di quel respiro – un’arietta che spasima e cade, spasima e ride”. (Brano tratto dalla bandella, ndr).

***

Siccome è gira gira ferma qui a noi d’accanto / su ‘l perno ‘l suo ‘na giostra / di ciuchi ‘cartapesta che si dondolano / immoti e vanno vanno in chissadove infanzia” recita un pinocchio di Bene ne ‘L mal de’ fiori, titolo dal profumo inebriante di barocco, orfico e decadente, che potremmo, sottraendoci alle ire dell’autore, sostituire a quello del libro che vi andiamo a presentare, lucente e invece netto come una rasoiata, Fabula rasa (Oèdipus, Collana CromaK, 2018) di Vito M. Bonito, figura appartata di  poeta e saggista che ad averne in Italia (e qui la chiudo, per non farlo alterare definitivamente conoscendone la delicatezza di spirito). Dalla scena funambolica di Bene,  in cui è la parola stessa a sottrarsi alla propria morte -inscenandosi- in un conato di vertigine «multilinguesca», parola che attraversata poi dalle angosce paralizzanti «fischiettate nelle tenebre» di Scialoja e Caproni, giunge fino all’oscenità di una scrittura del privato, da «tombeau des lutteurs» -volendola raffigurare con la celebre rosa di Magritte- di fiori appassiti al funerale già nostro, di “una fioritura rapinosa dentro un luogo illuminato e devastato internamente dalla perdita” come ben ha scritto Andrea Temporelli (qui).
Queste cantilene a «sud del magico», favole nere in rima giocosa, oltraggiosa, che ci piace ascoltare -impronunciate- in un parco giochi affollato di una città di portici e arcate, da una voce più voci che da lontano un padre (“mio caro papà / se capogiri serali / o babilonie / della tua anzianità / vedo però / che porti gli occhiali / e parli solo / dell’aldilà) alle prese con una bambina assai dispettosa e irriverente, controcanto che nulla lascia d’insensato, fino a confondersi col materno “l’infanzia è madre della memoria e dell’attesa, madre indicibile della parola” scrive lo stesso Bonito in Campo degli orfani (Book, 2000). Un «dettato» -richiamando lo spettro dell’«outside» Spiceriano- che proviene da un altrove della voce, un Péue spernacchiato contro ogni falso immaginario,  una parola che dondola sull’altalena e poi rapida giù da uno scivolo, sempre più giù «fino al reale».
Come già in Soffiati Via (Il Ponte del Sale, 2015, Premio Nazionale “Elio Pagliarani”, Bonito ci regala l’ennesima estensione della sua personalissima idea di poetica con questa preziosa fabula, una «burla del proprio vaniloquio arrivato quasi alla fine», come lo stesso autore ha avuto modo di chiarire in altre occasioni,  che ingenera continue diffrazioni e fraintendimenti – troppo grande la lontananza da cui giunge la parola – ritorsioni e slogature di sintassi, vuoti bianchi di lucidi Nonsense, contro un sé perennemente distante, appena in anticipo e già in ritardo,  sempre a un passo dall’ora (“sottile e mi addìa / o luce del mio niente / nera ecolalia / lìmami la mente / pèue / e così sia”).
Ed è quindi di paternità che si discute, e di estinzione, non solo biologica, ma anche letteraria, di autorialità e autobiografia, di uno specchio in cui non possiamo guardarci senza strapparci i capelli dal ridere,  insomma di tutto ciò che tragicamente ci costringiamo a sopportare di noi stessi e della natura, mortale anch’essa, della parola.

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da Fabula rasa (Oèdipus, CromaK – collana diretta da Ivan Schiavone, 2018).

la bambina bianca (III)

ti ho vista!
in sogno che nascevi

mi dicevi
con le mani al cielo

il caos le ombre le spine

non so perché
ho pensato a bruciapelo

nel tuo principio
inizia la mia fine

*

ti ho vista!
in sogno che ridevi

gli occhi già nell’ulteriore

come a dire
in così tanto cieco amore

perché non mi raggiungi
qui giammai si muore

*

le agonie le afasie
le notturne
                  aritmie

sei vivo sei morto
nessuno lo sa
il passato il presente
ciò che sarà

sono fiato di niente
ubbie senza forma
vento da cui non si torna

esser non esser
chi viene chi andrà
la luce del corpo
l’oscurità

non so dirti
se è tutto un inganno
questo tuo affanno
mio caro papà

se capogiri serali
o babilonie
                della tua anzianità

vedo però
che porti gli occhiali

e parli solo
                   dell’aldilà

*

tintinnabuli

i fiori sono un’ossessione
lassù

ogni giorno
qualcuno si ammala

prende fuoco
s’innamora
fa i ricordi
si divora

*

Angelo dei crampi
angelo delle mani
tu che non perdoni
nostro essere umani
tu che non parli
ma solo ferire ci doni
morire
in questa luce sgomento
scendi colpisci
dammi la morte
dammi la morte
fai di me
come fiore si sente
fiorire in suo fiore
e si prega e unge
nel suo non sapere nel suo
non sapere più
perché cadere svanire
come bestia tra stelle
di sangue si lascia
nel grido soffiare
si lascia la mente soffrire
per non sapere
per non sapere più
quale grazia cercare
quale luce
ancora
                     tremare

***

la bambina bianca (V)

chiamatemi pèue
la bianca falena
l’infanta altalena
che scende e risale

io parlo i pesci le api
la neve nivale

divento di rame
le acque l’ossame
persino la fame

io parlo la pietra
la bolla l’anguilla

sono il fumo lo splene
il niente e nessuno
le mani di sangue
già piene

sono il tuo
                  scaccomatto
lo schianto
l’autoritratto
di te a testa in giù

io sono l’astratto
l’incanto

il caucciù

*

pèue di rose e di viole

pèue chimera
che mangia parole

piaga
di figlia che arde
sottile e mi addìa

o luce del mio niente
nera ecolalia

lìmami la mente
pèue
e così sia

***

Vito M. Bonito (1963) ha pubblicato in poesia: Soffiati via (Il Ponte del Sale, 2015) Premio nazionale Elio Pagliarani 2015, luce eterna (Galerie Bordas Venezia, 2012), Fioritura del sangue (Perrone, 2010), La vita inferiore (Donzelli, 2004), Campo degli orfani (Book, 2000), Il segretario (Zona, 2000). Ha scritto saggi sulla letteratura barocca, su Pascoli, sulla poesia contemporanea, su Beckett, sulla Societas Raffaello Sanzio, sul cinema di Aristakisjan, Herzog, Korine.
*
foto di copertina del maestro Dino Ignani.

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