«Milan Jesih fa parte della generazione che esordì sull’onda del ’68, un moto di ribellione che anche a Lubiana ebbe le sue manifestazioni: di carattere meno spiccatamente ideologico e più segnatamente culturale. E se in Occidente tra l’intellighenzia prevale l’impegno sociale e politico, in Slovenia prende forma in un risoluto, ostentato disimpegno. La letteratura, specie il teatro e la poesia, propongono opere d’avanguardia come un gesto liberatorio da questioni sociali e nazionali, rivolgendo le energie creative alla riaffermazione dell’integrità dell’individuo. Jesih muove i suoi primi passi sia in teatro che in poesia. E, fin d’allora, proporrà la sua estetica affilando sempre più i ferri del mestiere, che si contraddistinguono per un’alta maestria nel produrre l’arte della parola. Il suo disimpegno iniziale, volutamente provocatorio, finisce in un ostinato gesto di salvaguardia della libertà creativa, della gioiosa evocazione di fatti di vita e umanità a tutti i livelli, a tutte le coordinate di tempo e luogo. Dietro a una primordiale semplicità la vena poetica di Jesih riporta echi della poesia popolare, con un senso parodico i classici sloveni, ma riprende anche il filone (non tanto cospicuo nella tradizione letteraria slovena) di poeti solari, con sbocchi di ilarità, gioco, comicità nelle loro opere in versi: Jenko, Kette, Golja, Rob, per citarne alcuni, per arrivare poi a Šalamun… e sintonizzarsi con i cantautori sloveni contemporanei, come Zoran Predin, Iztok Mlakar, Adi Smolar.

Questo il contesto letterario sloveno di Milan Jesih a cui si dovrebbero aggiungere i suoi ampi orizzonti letterari, che percorre anche in qualità di traduttore dei classici inglesi, di quelli russi e della letteratura in serbocroato, mantenendo in tutto e per tutto il proprio personale approccio alla poesia. Poesia che, nonostante la suggestiva espressività narrativa e di immagini, è altresì molto legata alla forma, alle impostazioni ritmiche, melodiche, di rime e consonanze interne ai versi. Un poeta ludens invece che il poeta faber. Un poeta ridens invece del poeta sapiens. Un poeta puer invece del poeta vate. Il paradosso della poesia di Jesih sta poi nel fatto che la sua opera viene percepita come una verace immagine dell’uomo d’oggi, proprio per l’ironia, per la comicità canzonatoria, burlesca dell’essere umano, che ci trasmette l’assurdo dell’esistenza, la disperata lotta dei nostri amori, umori, della nostra delicata carne e pelle – con il tempo. Tempo pubblico e privato. La bruttezza del decadimento che il poeta contrasta sia con sottile tenerezza e melanconia, ma non di meno con l’esaltante creatività nell’ambito della lingua: intesa come suono, segno, messaggio e stile. Questo insieme, che forma un qualcosa di inconfondibile, rende la sua originale voce uno strumento unico per proporci l’immaginario poetico spicciolo e prezioso al tempo stesso. Umanamente commovente e non di meno artisticamente proficuo, moderno.»

Marko Kravos (tratto dalla prefazione a Milan Jesih, Mattinata Sabbiosa, FrancoPuzzo Editore, 2017)

 

Poesie tratte da Mattinata Sabbiosa (FrancoPuzzo Editore, 2017)

Traduzione dallo sloveno di Darja Betocchi

 

«La bella donna dove Amor si mostra»:
tu, per cui trascorro le mie notti in bianco
sognando di svegliarmi al tocco del tuo fianco,
perché tu sei un’assenza che mi prostra
ed è perpetuamente qui; vuoto d’una lontananza
sempre presente; sempre, dove non ci sei,
sei un bisogno senza volto, tenue fragranza
che all’infinito cerco in anonime lei,
tra cui mi lasci degli indizi ambigui,
sorrisi, dolcezze, gesti di trasporto;
amante primigenia, che da sempre t’insinui
ai margini del sogno – al centro del ricordo –,
e solo la ragione ti dissolve come schiuma,
te, che tra le donne non trovo in nessuna.

***

Nel cielo Venere si è denudata,
mentre lo scirocco – carattere lupino –
mi lecca affettuosamente la pelata,
mischiando l’odore dei prugni fioriti al vino;
ciò che di buono la memoria culla,
tutto si dispiega intorno a me, stasera:
incantevoli sorrisi di fanciulla,
il suo tocco, la sua mano calda e vera
(e già mi esalto e smanio invano,
Tantalo meschino: gallina stolta,
che un vetro becchetta posato sul grano) –
l’immensa vacuità della celeste volta,
per cui, intenerito, nella notte vasta,
pian piano, sorridendo, mi scolo la fiasca.

***

Domenica, giorno di festa, estate;
la sera si dispiega sul mondo, silenziosa.
Ogni marito porta all’osteria la sua sposa:
nell’aria, un palpito di cose passate.
Io mi affetto del formaggio stagionato
e mi riempio una bella caraffa di vino,
che pian piano centellino, del tutto appagato
(canaglia!) dal semplice fatto d’essere vivo –
ma l’amore d’un tempo, con tutti i suoi mali,
dov’è? E il cupo ruminìo sulle estreme cose?
E tutto il corollario di questioni capitali
che ora mi appaiono inezie spassose,
ma di cui pure so: come le perdute amanti,
sono oggetto d’immancabili rimpianti.

***

Da bimbo indulgevo a un autismo singolare:
il mondo è una scena allestita per me,
se dunque chiudo gli occhi, scompare:
poi devo dire, concentrato: uno, due, tre,
per sorprendere l’assenza in flagrante,
così vedrò, vedrò… Non male, la finta:
ci provavo spesso, con impegno costante,
sperando di vedere il Nulla dietro la quinta.
Ora, uomo maturo e quasi un po’ sfatto,
mi ritrovo con tutt’altra diottria:
mi piace passeggiare lungo un verde prato
e non di rado mi ubriaco all’osteria,
vedo chiaramente oltre la scenografia
e da tempo il nulla non mi si nasconde più.

***

Anni fa, in un bel sole autunnale,
stavo in cima a un molo del Quarnero.
Il figlio d’Eolo, acerbo maestrale,
le pigre onde sospingeva leggero.
Stavo dunque lì, in pieno mattino,
pesto per la nottata di vino e di guai,
quasi bramando il luogo luciferino
dove ogni Quando si tramuta in Mai.
E venne lei, sul capo un orcio panciuto,
non camminava, ma viva danzava,
pareva sorridere, e invece parlava:
l’aspettassi, tornava tra un minuto;
l’aspettassi ovunque, «Per tutta la vita!»
Una visione, sbuffai. Non l’ho ancora tradita.

***

«Selvaggio Idaho» – bel titolo. Chissà:
potrebbe nascerne un libro avvincente.
Sull’Idaho infatti so meno di niente,
quindi, è certo: non avrei difficoltà.
Eppure, quel che davvero mi fa gola,
è un trattato in versi sulla spongia officinalis:
ma non so come cavarmela, con la bestiola –
son tanto snob: aborro le rime banali.
Insomma, già vedo cosa mi tocca:
ripiegare sui consueti argomenti,
le stagioni, i fiori, la Sua bocca
(già spargo il seme ai quattro venti),
la morte, l’incessante volo dei minuti –
cercando suoni sempre più… più muti.

 

Milan Jesih nasce nel 1950 a Ljubljana. Studia Letterature comparate all’università della capitale e si specializza nello studio del russo e dell’inglese. Professionalmente si afferma come traduttore di prosa, al punto che le sue versioni dei classici russi e inglesi (Čechov, Bulgakov, Shakespeare) diventano dei classici.
In realtà il suo rapporto con la poesia inizia a svilupparsi già da giovane, alle scuole medie, ma è all’università che acquisisce la maturità necessaria a pubblicare la prima raccolta Uran v urinu, gospodar! (1972). Seguono sette altre raccolte di inediti, di cui l’ultima esce nel 2000 (Jambi). Nel 2002 riceve il premio Prešeren per l’intera opera poetica, mentre è due volte vincitore del premio Jenko, nel 1991 e nel 2001.

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