Premessa

Nel proporre il primo commento a un’opera inedita è immediatamente sopraggiunta la necessità di fare alcune brevi considerazioni sul ruolo assunto da chi scrive. Innanzitutto preme qui ricordare che la selezione degli inediti non si configura come talent scouting atto a creare squadre e scuderie; più interessante è invece la creazione di uno spazio estraneo a logiche di visibilità reciproca, insomma di vacua azione pubblicitaria tra le parti, così come avviene nella maggior parte dei luoghi sulla carta (o sullo schermo) preposti alla ricerca letteraria. La prima azione da compiere sarà dunque oscurare, sempre e in ogni caso, le biografie degli autori, non solo per motivazioni e credenze estetiche, ma per riaffermare la priorità dell’opera sull’autore – o quantomeno la loro separazione -, considerando non solo l’iper-visibilità di cui gode quest’ultimo, ma il fatto che una biografia edulcorata da premi, incarichi e fatti vari non abbia nulla a che vedere con la critica di un’opera; ciò avverrebbe, difatti, a discapito dell’opera stessa, nel caso in cui quest’ultima non rispettasse le aspettative create dalla magnificente biografia dell’autore. Vogliamo tutelare non solo gli autori presenti in questa rubrica ma anche noi stessi, affinché non cadiamo nella tentazione dei circoli letterari.

Esprimiamo, di conseguenza, il nostro imbarazzo nel proporre un’analisi dei testi qui proposti, per due motivi: la trascurabile differenza anagrafica tra il curatore di questa rubrica e l’autore dei testi, che presuppone nell’ambiente letterario una biologica immaturità da parte del giovin critico; infine la disattenzione, nonostante l’esistenza di attenti studiosi delle cosiddette sperimentazioni (termine privo di significato se non serve a delineare un contrasto con la ‘lirichetta all’italiana’ dei poesiologi), nei confronti di una scrittura tanto accurata – se ne accorgerà il lettore – e senza dubbio superiore a molte delle opere che godono di più larga diffusione. Sono due aspetti non disgiunti, considerate le difficoltà che noi (diciamo) appartenenti a quest’ultima generazione di scribacchini affrontiamo ogni qualvolta tentiamo un dialogo con le generazioni precedenti, le quali non esitano a rinchiudersi nella loro indifferenza. Accettato che l’umanità è ovunque omogenea, dal tavolo degli ingegneri alle congreghe dei poeti, e tende all’autoconservazione gelosa dei propri piccoli poteri, non resta che rifiutare, artisticamente parlando, di considerarsi ‘figli’, allievi, prodotti di qualcuno. Di conseguenza decade, in questo specifico caso, ogni qualsivoglia equivoco ‘pedagogico’ tra le parti interessate nel discorso critico. Teniamo sempre a mente la lezione di Joyce nell’Ulisse:

– Il figlio nascituro guasta la bellezza: nato, porta dolore, separa l’affetto, accresce la preoccupazione. È un nuovo maschio: la sua crescita è il declinare del padre, la sua giovinezza l’invidia del padre, il suo amico il nemico del padre. […]

– Sono padre? Se lo fossi?

Mano esitante raggrinzita.

– Sabellio, l’Africano, l’eresiarca più sottile tra tutte le bestie del campo, sosteneva che il Padre era il Figlio di Se Stesso. Il mastino di Aquino, per il quale non vi è parola impossibile, lo confuta. Bene: se il padre che non ha un figlio non è padre, può il figlio che non ha un padre essere un figlio? Quando Rutlandbaconsouthamptonshakespeare o un altro poeta dello stesso nome nella commedia degli equivoci scrisse l’Amleto egli non era semplicemente il padre del proprio figlio ma, non essendo più figlio, era e si sentiva padre di tutta la sua razza, padre del proprio nonno, padre nel nipotino nascituro che, alla stessa stregua, non nacque mai, poiché la natura, come ben lo intende Mr Magee, aborre la perfezione. […]

– Padre di se stesso, Mulliganfiglio disse tra sé. Aspetta. Sono incinto. Ho un nascituro nel cervello. Pallade Atena! Un dramma! Il dramma è quello che ci vuole! Fatemi partorire![1]

Parte 1. Oriente

L’opera inedita di Andrea Peverelli, Il boia stupendo, presenta due sezioni che affronteremo in due momenti distinti per dare più visibilità ai testi; in questa prima parte, Stella della Sera, vi sono evidenti influssi orientaleggianti atti a creare sfondi stupefacenti nella narrazione. Non si tratta di letteratura esotica, se l’Oriente non funge da piano oppositivo atto a organizzare spasmodiche fughe da un reale urbano – espediente di un orientalismo oggi noiosamente démodé -; piuttosto esso agisce da catalizzatore per il plasmarsi di elementi contrastivi in forma di mere interferenze, all’interno di un mondo metropolitano ormai poeticamente abusato e dunque vuoto, in cui le ‘mescolanze’ non sono ricercate ma inevitabili (non si sfugge alla tradizione).

Peverelli non cade nel cliché degli scrittori naturopati, né propone gite in cammello per ritrovare se stessi; il soggetto si è già licenziato da ogni ruolo di direzione, lasciandosi inglobare in quel flusso di eventi storici e mitici appena evocati; non solo, ma è rifiutata anche qualsiasi possibilità di riorganizzazione logica e cronologica, o addirittura consolatrice, in barba al metodo mitico di Eliot e a tutti i ‘vecchi’ contemporanei: «parlano ancora di metodo mitico gli ultimi riservisti» accusa Peverelli. L’evocazione di una Babele del linguaggio corrisponde al tentativo di pervenire al gesto primitivo, in una forma di ricordo ancestrale che tenti il riavvolgimento al grado zero della comunicazione; tutta la storia dell’uomo è ridotta a questa costante universale di incapacità comunicativa, scardinando l’assioma gratuito di un passato glorioso che si contrapponga a un presente tecnologico e manomesso in via irreversibile. La Storia è per Peverelli corpo inglorioso da cui attingere materiale linguistico, è un ricettacolo di flash inconcludenti che operano da inutili segna-‘libro del mondo’, sfogliati a casaccio dall’autore per provocare alterazioni psichiche da riconvertire magari in immagini surrealiste, come ad esempio il «monaco in fiamme a cometa giù dalla rupe», a cui seguono personaggi-fantocci tratti da un’improbabile mitologia da taverna.

Probabilmente l’età dell’autore non permette di svincolarsi facilmente da questioni prettamente ‘giovanili’ – termine terribile, della peggior zoologia -, se in questa prima parte emergono i primi segni di una crisi psicologica e a tratti spirituale; ma l’autore, scardinando abilmente il tedioso decalogo che prevede notti insonni e preghiere (certo, se qualcuno crede di poter fare meglio di Leopardi faccia pure), presenta soluzioni stilistiche finissime, e sempre può riattivare il bistrattato ‘sublime’ pensare all’adolescenza come tempo ideale dell’inesperienza, della disperata ricerca di un’identità immediatamente smentita e scalzata dalla storia nuova dell’uomo adulto, incapace di riconnettersi all’incanto di un gesto o di una parola primitiva – e da questa ricerca impossibile di riavvolgimento e disfacimento crediamo possa eternamente attingere la lirica più degna.

La poesia di Peverelli pare spesso rivivere, in questa prima parte, la tragedia di un immaginario remoto e plasmato da una memoria che opera da meccanismo inceppato, soprattutto a causa di sovrapposizioni sonore. In questa sperimentabilità del rumore urbano si rintraccerebbe l’ammiccamento inevitabile di un autore scandalosamente inedito a una sedicente comunità poetica, tutta treni e ferrovie, se non fosse che la scrittura di Peverelli chiaramente ignora queste scorciatoie e riferisce esclusivamente il dettato innescato da un misterioso incanto – meno esoterico e sfacciatamente artificiale nella seconda parte -, attraverso uno stile magmatico che non vuole stupire né far mostra di sé, ma solo provare a se stesso il fallimento della memoria. Si ha la sensazione, dopo aver letto i testi di Peverelli, che tutta la storia dell’umano non sia che una concatenazione di fatti goffamente legati da imposizioni di causa ed effetto; che sia possibile, tramite il lavoro di dis-ordino della poesia, sbrigliare l’incomunicabilità fino a farla proliferare, liberare «le idrauliche del linguaggio».

 

Da Il boia Stupendo

 

Pellegrinaggio – storia di qualche amore

[…] e quanto barocco sotto i nostri occhi là dove un barlume accumulava stucchevolmente amori fraterni
quasi scolpiti sotto umori
umidi negli inferni di stive moresche
un barocco farinoso di tresche cotte colpo di fulmine nei forni –
Paisios l’atleta dello spirito ci lasciò per un’osteria metropolita
avrebbe amato tutti quei profili poco classici
disadorni, al culmine dell’acne
e la brufolosa Aracne nu metaller, barista
tessifato d’amore
quel giorno mi sentii invischiato in infatuazioni eterne
mi fermai, rimasi al di qua di ogni salvezza
all’arrivo oltre gli stretti a chi ce la fece si pararono davanti mura mai troppo alte
ed abbiamo il cervello a pezzi a Tenochtitlan
siamo poco più di parietali mezzo cresciute
/ le idrauliche del linguaggio non tengono in pressione più nemmeno una parola
s’innesta un litigio sui gangli scorbutici, incomunicanti
del nostro povero sentimento
non connetto, muoio poco a poco
rasoiando il vero nome di Dio alla luna fra la barba del Taigeto
insieme alle baccanti automatiche dei vodkalemon
e getto via ogni altra cosa
le mie cartacce stitiche appese ad un silenzio
che solo per te crepa i fari cigliosi lungomare da cui seduto
sulla curva frastagliata
tenera mi osservi

Sosta

I.

dalla rimessa caucasica
senti strapparsi la lampo del cielo
come maniche svolazzavano
le tue grida
Prometeo ladro di arterie
ormai la mia scrivania è tutta una ferita sanguinolenta
che parla da sola
– dal labbro spaccato
la tua lingua schiassa gelosie
i suoi schiocchi sono lo schema ideologico dell’abbattimento
tutto il mondo sarà spianato per fare spazio ai mazurkari clandestini
se non ci amiamo di nuovo con intensità di adolescenti
schifosamente inesperti

 

II. Pianosequenza di una stella cadente

monaco in fiamme a cometa giù dalla rupe
del monte Athos henné della mano balcanica
sono una ideologia d’attrito alla tua irrazionalità a precipizio
sono spazzatura di resistenza
non essere il mio faro che cola a picco sul mare
mare coperta che si sfilaccia dopo una sola notte
insonne a voltolarti fra visioni e chiacchiere
del tutto personali
mancanti di oggetto
e di ragioni complementari alla propria mancanza biologica di sangue da donare
quando si muore

 

Noterella I

c’è veramente un gioco tra la tua astinenza
è uno stormire di marlboro accese
i gabbiani in picchiata suicida ti si spengono picchiettandoti la lingua
ma ora che il cielo mi è più vicino della mia vena giugulare
a ben vedere non hai tra i denti la solita cenere

tu strappi una pagina di calendario per asciugarti il viso lamponato di sudore
rompi le onde
carteggi le maree
e il povero vecchio nostro Mediterraneo di colori smorti e turchi morti turchi morti turchi morti si scrolla di dosso le scaglie di sole con canina imprudenza

 

Noterella III. Sul morire

esalare l’ultimo fiato =
l’accartocciarsi mai provato della primissima ora
morbidi pianti alluminio
e i capelli da vecchio
disargèntano giù
pioveva

sì però
non ricordo più ormai
scusate
potrei riprendere le fila ma
ho una memoria da mosca
ho una memoria da mosca
ho una memoria da mosca

i pezzi sono al loro posto
ma
ho
una
memoria
da
mosca

 

*

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[1] J. JOYCE, Ulisse, traduzione di Giulio De Angelis, Mondadori, Milano, 1988, pp. 202-203.

 

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