Laboratorio di Poesia, a cura di Alfonso Maria Petrosino, esce l’ultimo venerdì del mese su ‘Poesia del nostro tempo’. Vengono commentati i versi degli aspiranti poeti del Laboratorio online e scelta la poesia della settimana.

Trentacinque volte su trentasei le poesie di Pasquale Ruggiero si strutturano in quartine a rime per lo più alternate. La facile musicalità delle rime categoriali (accettarsi: giudicarsi, protegge: corregge), etimologiche (ricordo: scordo, conti: sconti), crepuscolari (cuscino: comodino) o petrarchesche (sguardo: dardo) viene disinnescata dalle variazioni sillabiche: raramente i versi hanno la stessa misura e questo potrebbe non essere un difetto, perché permette alle frasi di sviluppare un andamento scazonte, come di canto spezzato. I temi sono noti, quasi direi immanenti alla lirica occidentale: la foglia metafora della vita umana (“Cadono le foglie / come gli anni, / sospese sulla soglia / di desideri e affanni. // Lottano nell’aria / pur di non toccare terra. / Si alzano nella boria / dichiarano guerra”), un notturno lunare per cui si escogita una bel paragone (“Luna di settembre / perla maculata, / con le bianche ombre / accendi la vallata”), la descrizione della poesia tramite una prosopopea femminile; in quest’ultima l’endecasillabo “il tuo seno materno ben fornito” meriterebbe a margine e fuor di metafora l’hashtag #milf.

Le poesie di Marcello Furiani si articolano tutte intorno a pochi ripetuti elementi: quelli atmosferici come assoluto metaforico, ovvero ghiaccio, pioggia, gelo e neve, e la coppia “dolore-cuore” che nel giro di ventisette versi compare per ben due volte in rima. Il tutto risulta tanto compatto quanto delicato; si avverte un certo gusto per il poetichese, che parole come “dimora”, “schiudi” e “rugiada” lasciano supporre ma non si può non apprezzare l’equilibrio complessivo delle frasi, il richiamo interno di parole, anzi di particole sillabiche, tenue al punto giusto: abbastanza perché si noti e suoni; non troppo, perché non copra il resto stonando. Penso a “Poi inclini al ghiaccio / sottile al gelo che incrina / l’asilo il lascito del cuore / / questa treccia di sangue mite / così muto e ignoto al dolore / di te che fuggi la neve / se il gesto si fa ramo / se piove / se ti chiamo”), l’allitterazione dei due verbi iniziali (“inclini” e “incrina”), la crepa mimata da quella all’inizio del terzo verso (L’ASilo e LAScito) e le consonanze tra “mite” e “muto” e tra “muto” e “ignoto”, che intrecciano, è il caso di dirlo, suono e senso.

Tommaso Gazzolo è un Pound de’ noantri. L’uso delle barre colloca i suoi testi in un limbo tra la prosa, che le barre spezzano e ritmano, e la poesia, priva così della potenzialità degli a capo; diventa meno musica e più filodiffusione, ed è fluente. Gli inserti di tedesco, inglese e francese creano una babele mentale tanto caotica quanto ipnotica. L’assertività di alcuni enunciati è controbilanciata dalla vaghezza del disegno, il sentimentale dall’esistenziale, il tu sfugge e vacilla rispetto a un io che dice io andando alla deriva. Ne avrei letti volentieri cento, ma ne ha inviati solo tre e quello che posto qui è il primo.

Le cose si trasformano / non appena le tocchi: ragazzi d’estate quando facemmo quella passeggiata in bicicletta la bella cupa città / I rejoice to see it, and think / accanto alla vecchia ferrovia / tra le automobili e la via di mezzo che scivola in basso verso una palestra di boxeurs e le vetrine di un parrucchiere / la stessa città / che una volta smise di esistere che vidi / con te, quando giocavamo a pallone e stavamo male, / dove erano i ponti, le passeggiate tra i campi e i cani / e gli occhi azzurri: / dove sono il cimitero di holzminden e le macchine usate, i signori Zinke, la messa luterana. / Perduto sarei sempre come stai, non piangere, non dimenticare; / vediamo le piccole cose, abbiamo altro da fare e no, tornano troppo tardi, hol dir dein photo: non saremo mai più così giovani di quanto lo siamo adesso / le ragazze dell’estate / sono dei ricordi appena sfiorati passato / che non e’ mai stato, già le coppie prendono / nervose il sole si lasciano / si chiedono cosa fare, stasera. Abbiate non abbiate fiducia / in noi die werden hipegern auf den Mist, bambine dunkirk ripetizioni di tedesco per te, scale che scendono, polvere calda sale poi cloro, poi le faneroscopiche strade dei mille / a domani, a domani. Ma noi, comment vivre ensemble / se non essendo diversi da noi / buttandosi per la prima volta in un cinema o sotto un ombrellone la sensazione che tu te ne stia per andare / e che io possa accorgermene soltanto / quando sarai già lontana. Dimenticare per scrivere per farlo accadere diceva che non ha gli anni che ha / le parole nere, le città che hai visto senza di me / non ci si separa che per potersi incontrare ancora.

Alfonso Maria Petrosino ha pubblicato tre libri di poesia, Autostrada del sole in un giorno di eclisse, Parole incrociate (Tracce, 2008) e Ostello della gioventù bruciata (Miraggi, 2015). La sua poesia, che descrive luoghi e situazioni in relazione a un paesaggio urbano e all’umanità che lo abita, si avvale di una metrica precisa e raffinata. La redazione di Poesia del nostro tempo ha scelto Alfonso Maria Petrosino per impersonare la figura del maestro, capace di leggere attentamente e suggerire soluzioni, anche ai neofiti della poesia, proprio per la sua capacità sia di aderire al “canone”, alla tradizione, che di frequentare i nuovi palcoscenici della poesia, dagli happening e performances al poetry slam, essendo stato campione indiscusso di queste scene per molti anni.

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