da Annuario 2015
 
Stimato Adnan, nel panorama di un paese come la Turchia fortemente polarizzato secondo campi ideologici non comunicanti (in particolare: kemalismo laico-modernista-urbano-elitista contro conservatorismo religioso-anatolico-popolare), la tua figura di poeta e attivista culturale spicca per la sua eterogeneità e resistenza a ogni categorizzazione. Potresti raccontare ai lettori italiani quali sono state le vicende e i fattori che ti hanno condotto ad assumere questa posizione così “trasversale”?
Innanzitutto voglio ringraziare te e la redazione di Argo per questa opportunità. Ritengo sia molto importante che giungano ai lettori italiani e internazionali nuove voci dalla Turchia e dai paesi del Medio Oriente, voci estranee alle dinamiche dei grandi gruppi editoriali e di potere. Perché il più delle volte gli intellettuali hanno la tendenza a sentirsi una categoria eletta, con il privilegio di emettere sentenze e giudizi su qualunque evento politico o sociale. Questo atteggiamento è riscontrabile in ogni parte del mondo, ma in un paese come la Turchia risulta essere particolarmente nocivo e controproducente. Come da te accennato, in seguito alla rivoluzione kemalista e all’istituzione della repubblica, le dinamiche politiche hanno portato a un vero e proprio “conflitto di classe” tra gli elementi laici e borghesi della popolazione, detentori di tutte le leve del potere politico e culturale, e il resto del paese, considerato una massa arretrata e oscurantista solo perché legato alle sue tradizioni religiose e culturali. L’élite politica e gli intellettuali turchi, formatisi secondo i canoni culturali dell’Occidente, hanno così cominciato ad applicare verso le classi sociali più povere del loro paese quello stesso sguardo “orientalista” sviluppato dalle potenze occidentali per affermare la loro superiorità culturale nei confronti dei popoli colonizzati. Così facendo, questa élite politica e intellettuale turca non si è resa conto di essere diventata essa stessa una colonia dell’Occidente, un avamposto ideologico forgiato dalla cultura occidentale, incapace di produrre un pensiero e un’arte propria, ma soprattutto incapace di provare empatia e stabilire una relazione sincera e autentica con il proprio stesso popolo. Quello a cui stiamo assistendo ora – l’arroganza del partito al potere e soprattutto del suo leader coi baffetti – deve essere interpretato come il desiderio di “vendetta” di una classe sociale che per 80 anni ha vissuto una forte oppressione politica e culturale. Scusa se mi sono dilungato, dov’eravamo rimasti?
Figurati, grazie per le tue appassionate parole. Ti avevo chiesto di raccontare un po’ della tua formazione…
Ecco appunto: io sono nato in un villaggio della Tracia (regione a ovest di Istanbul, al confine con Grecia e Bulgaria, NdR), mio padre era un impiegato delle Ferrovie turche. Ma la prima figura di riferimento è stato mio nonno: ricordo la sua apertura mentale, la sua disponibilità ad “ascoltare” e ad “ospitare”, senza mai giudicare o fare differenze. Paradossalmente era una figura molto più aperta dei miei genitori. Credo si tratti di qualcosa legato alla “modernità” con cui erano entrati in contatto i miei genitori, credo che la “modernità” implichi sempre in qualche modo una struttura mentale “razzista” o elitista. Dopo di lui, è stato un fatto legato al lavoro di mio padre a segnare indelebilmente il mio percorso. Le Ferrovie decisero infatti di punirlo a causa di un’infrazione commessa, trasferendolo in una città lontanissima della regione curda, di nome Batman. Qui ho quindi trascorso tutta la mia adolescenza, conoscendo per la prima volta la povertà e la militanza politica, ed entrando in contatto con una cultura ancora fortemente legata alla tradizione religiosa, alla letteratura araba e persiana, al patrimonio orale dei cantastorie. Anche se io nel 1976 mi sono trasferito a Istanbul per iscrivermi all’università (e al partito comunista turco), la mia famiglia si è fermata a Batman ancora tre anni. Oltre ai sette anni trascorsi a Batman ho quindi avuto la fortuna di attraversare il paese da un estremo all’altro in treno almeno quaranta volte nel corso di quegli anni (il viaggio durava 3 giorni), accumulando una straordinaria ricchezza di impressioni ed esperienze “dal basso”. Subito dopo l’arrivo a Istanbul, il partito comunista mi assegnò a un gruppo di ricerca incaricato di effettuare interviste con gli abitanti e i lavoratori dei quartieri più periferici della città, dove si stavano riversando in quegli anni decine di migliaia di immigrati provenienti dal resto del paese. In quegli stessi anni ho cominciato anche a scrivere le mie prime poesie. E così, nel 1978, giunse il terzo e ultimo punto di svolta nel mio percorso di formazione: il partito comunista turco mi selezionò come membro della delegazione da inviare a Cuba per partecipare al Festival mondiale della Gioventù organizzato dall’Unione Sovietica.
Andare a Cuba dev’essere stato per te un’esperienza straordinaria in quel momento: quali impressioni ne ricavasti?
Oltre all’emozione del viaggio e dell’incontro con numerose culture completamente diverse dalla mia, ciò che fu cruciale per me fu rendermi conto di quanto la sinistra turca, con la sua convinzione di essere un’avanguardia della società, di essere in possesso della verità definitiva e delle soluzioni più giuste che era necessario trasmettere al popolo “ignorante”, si fosse in realtà gravemente staccata dalla realtà sociale dei fatti. A Cuba ho capito che il pensiero di sinistra, il pensiero di una società diversa basata su principi socialisti ed egualitari, può venire solo dal basso. Gli intellettuali e i militanti di sinistra, se vogliono dare un contributo, devono smettere di credersi un’avanguardia superiore e cominciare a stare tra la gente più umile, ascoltare le loro storie, le loro esigenze, i loro perché. Per questo qualche anno dopo il mio ritorno in Turchia, seguito dal terribile colpo di stato del 1980, ho fondato una rivista intitolata «Üç Çiçek» (Tre fiori, NdT), in cui ho tentato di unire scrittori musulmani e scrittori di sinistra, un’impresa che purtroppo fu apprezzata molto più dai primi che dai secondi. La reazione degli ambienti di sinistra fu di estrema diffidenza, non capivano quale fosse la necessità di dare spazio alle voci più “conservatrici” della società. Questo per me fu uno shock: secondo me ogni persona, ma in particolare chi si ritiene un elemento attivo della vita culturale di un paese, come gli artisti e i poeti, dev’essere pronto ad ascoltare ogni voce senza pregiudizi, non deve mai comportarsi o esprimersi come il portavoce di una ideologia o uno schieramento politico.
E cosa pensi quindi del caso di Nazım Hikmet, un poeta che è sempre stato legato all’ideologia comunista?
Senza dubbio Nazım è stato una figura politica e culturale straordinaria, che ci ha lasciato un’opera di grandissimo valore, ancora oggi tradotta e apprezzata in tutto il mondo. Ma la sua figura cosmopolita, l’estrazione sociale borghese e prettamente urbana, e l’identificazione partitica hanno limitato la sua ricezione in Turchia al settore laico e moderno della società.
Quindi secondo te schierarsi politicamente in Turchia determina degli effetti negativi nella produzione e ricezione della poesia?
Non solo in Turchia. Secondo me non è il compito di un artista o un poeta quello di prendere parte all’arena politica in senso stretto. Sottoscrivere dichiarazioni, scrivere poesie su richiesta in seguito a qualche tragedia o anniversario, è secondo me semplice vanità, opportunismo, desiderio di far parte di una comunità virtuale, o di una fantomatica coscienza civile. Molto meglio rimanere da soli e/o in silenzio. Il poeta deve sempre e solo sforzarsi di cercare la verità, ed esprimerla con lo strumento delle parole.
Inutile chiederti quindi cosa pensi del ruolo della poesia nel tempo della barbarie di ISIS e del caos mediorientale…
ISIS è l’ennesimo frutto impazzito dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente. Contro la loro violenza la cultura non può niente, l’unica opposizione possibile è la resistenza armata. Se avessi qualche anno in meno non esiterei un attimo a unirmi all’eroica resistenza dei guerriglieri curdi in Siria e Iraq. Ma per chi è troppo vecchio o non ha il coraggio o la vocazione di prendere le armi, l’unica battaglia culturale possibile contro la barbarie è quella di provare a imparare l’arabo, il persiano, il curdo, incontrare chi in quei paesi produce cultura, invitarsi a vicenda, tradurre letteratura da quelle lingue, ascoltare cos’hanno da dire gli immigrati di quei paesi che vivono in Italia, pensare che queste persone non sono una minaccia ma un vero e proprio miracolo apparso all’angolo della propria strada, una quotidiana opportunità di dialogo e reciproca comprensione e arricchimento.
 
Traduzione dal turco di Luis Miguel Selvelli da Gözyaşlarının gücü / La forza delle lacrime
 
Aşktan hasta olan Teabbata Şarran
 
Şanfere, kalın dudaklı yoldaşım
bu güz acım büyük
Acım beni Yezbul dağına zincirlenen
Ülker yıldızı gibi bağlıyor
Dilerim sen katıl benim yerime
Ukâz’a Benî Salamanlara attığın oklar
gibi vınlasın şiirlerin
Uzun ve şerha dilin avlasın hakem
Nabiga’yı Bilirim iyi koşucusundur
bir kum tepesini tane tane devirir soluğundaki sabır
dörtnal giden atlara yetişip kuyruğunu topuz yaparsın
senden önce varan olmaz Taif’in çiğdemlerine
Tasa etme susturur onları kabilemizin
muâllâkası On iki pınar bulduk bu yaz
on iki ak şiir yazdık
Ahenk bilen devemi vereceğim sana
geceleri tasvir ederken adımlarını
say dört ayak bir ahenktir unutma Şanfere,
kalın dudaklı yoldaşım siyal çakıllarından
çıbanlı yüzün şehrayin misali,
çöl seması hali parlak yüreğin
en canlı senin gözlerine vurur sevgilinin hayali
ve obamızın metruk izlerini yansıtır
uzun ve susuz yolculuklarda
Dilerim sen katıl bu güz Ukâz’a
ve cesur sihrin, akılalmaz
benzetmelerinle Benî Salamanlara attığın
oklar gibi vınlasın şiirlerin
Başa gelip, hatip Kus bin Saide
şiirlerini ezberlediğinde
terimle suladığım koltukaltı kamamı
sana hediye etmek için koparacağım
bağrımdan ve o iki gözlü, kedi başlı korkunç
gülümü takacağım sevgilinin çadırına.
 
Teabbata Şarran malato d’amore
 
Şanfere compagno dalle forti labbra
questo autunno il mio dolore è grande
Un dolore che mi lega, come al monte
Yezbul incatenate sono le Pleiadi
Voglio che al posto mio vada tu alla fiera di
Ukâz sibilino le tue poesie
come le frecce lanciate ai figli di Salomone
Colpisca il giudice Nabiga la tua lunga bifida lingua.
Sei un buon corridore ti conosco
grano a grano la pazienza del tuo respiro rivolta un monte di sabbia
raggiunti i cavalli al galoppo alla loro coda fai un nodo
nessuno prima di te giunge ai colchici di Taif
Non temere, il poema della nostra cabila li metterà a tacere
Dodici sorgenti trovammo questa
estate dodici bianche poesie scrivemmo
Ti darò il mio cammello che conosce il metro
descrivendo le notti conta i suoi passi quattro
passi sono un metro non dimenticare Şanfere
compagno dalle forti labbra
volto butterato dai ciottoli
neri cuore brillante
come ardore di luna piena, deserto di cielo
l’immagine della persona amata ravviva più d’ogni cosa gli occhi
tuoi e riflette nei viaggi lunghi e assetati
le tracce desolate della nostra tenda
Voglio che questo autunno vada tu alla fiera di
Ukâz con l’ardito incanto e gli impensabili raffronti
sibilino le tue poesie
come le frecce lanciate ai figli di Salomone.
Quando vincerai e Kus bin Saide manderà
a memoria le tue poesie
mi strapperò dal petto per donartelo
il pugnale bagnato di sudore
e appunterò alla tenda della persona amata
quell’atroce rosa grande come testa di gatto.
 
Kırlara veda
 
Gözyaşlarının gücü vardı eskiden;
ırmak yüklü adamlardık tuz katarlarının ardınca
giden, gölgemizde damlaların bıraktığı izlerden
açılırdı hayal tuzun suda bukağısı çözülürken.
Utanır arınırdık şehirde fazla kalmak
suçundan; akıl danışırdık yağmura: Nasıl
döneriz evlerimize doğru yollarından;
nasıl fener yapıp kemiklerimizden, tütsüleriz
gecenin mor arılarını çıkınca kovanından?
Çoraksa gece: Saçlarda yıldız, gözlerde yine
yağmur, sarı bir zaman dilimi gibi yanan fenerler
(mum yanar, yağ dolanır, mumyalar toprağı çamur),
kanda yaralar gibi gülün ağrıttığı dikenler…
Ardımızda yoksul ve yerli bir söylenti,
böyle yürürdük ateşli ekinler gibi menzilsiz.
Yoktu buğdaya un olmaktan ötesi;
bulgur çeken kadınlardan doğduk ya biz,
güneşi taşta sırmalayan o kırıntı bilgeleri,
aya bakan sundurmalarda çatlak topuklu annelerimiz,
sıcak bağımız, güleç mısırımız, dindar soğan tilmizleri,
o topuklar, ah o topuklar ve kerpici terk edişimiz…
Kızıl toprak ve iri saman, yani Allah’ın
harcı gözyaşlarının gücüyle eskiden
serin eviçlerine sarı bir mahremlik sunardı,
yağmur bir dua gibi geçerdi pencerelerden;
yetim insan toprağın vicdanıyla doyardı…
Demem o ki,
gözyaşlarının gücü vardı eskiden.
 
Addio alle campagne
 
Le lacrime avevano forza un tempo,
fiumi eravamo, uomini dietro carovane del sale,
dalle tracce che sulla nostra ombra lasciavano le
gocce si schiudeva un’immagine,
allo sciogliersi nell’acqua del ceppo di sale.
Nella vergogna ci pulivamo dalla colpa del troppo stare in città;
alla pioggia chiedevamo consiglio: come torneremo
alle nostre case per le vie d’oriente; come faremo
delle nostre ossa la torcia che nella notte
affumica le api all’uscita dall’alveare?
Se la notte è arida: stella nei capelli, negli occhi ancora
pioggia, come gialla striscia di tempo ardono le torce
(brucia la candela, s’avvolge la cera, terra di mummie è il
fango) come ferite nel sangue le spine inflitte dalla rosa.
Dietro noi una diceria misera e oriunda,
così senza meta andavamo come messi ardenti.
Per il frumento altro non c’era che essere farina;
da donne che macinano bulgur nascemmo noi,
vere sapienti del frammento, vergolando sulla pietra
il sole nostre madri dal tacco crepato, guardando nei cortili la luna nostro caldo
legame, lieto granturco, della cipolla pie discepole, quei tacchi, ah
quei tacchi e il nostro abbandonare il fango…
Terra rossa e fieno grosso: materia di Dio
che con la forza delle lacrime un tempo
ai freschi interni offriva una gialla intimità,
sulle finestre la pioggia scorreva come preghiera; di
coscienza terrena si colmava l’orfana creatura…
Non dico che questo,
le lacrime avevano forza un tempo.
 
Kristof Kolomp’un evinde
 
İnsan bir okyanus koymalı bazen
arasına ayak izlerinin,
sığınsa da kalbine gezerek ısıttığı karalar
zalim kahramanı olmalı bütün terk edişlerin.
Çok görülmüştür kartalın kıyıdan döndüğü,
kaplanın yırtıcı merakıyla denizden yüzgeri ettiği
ama bir kere olsun erkek dediğin
bırakıp ardında ata mezarlarını
uzak volkanların kaynayıp söndüğü
adalara gitmeli, adını söylesin diye
bir taşın içinden evini yakan ateş.
Bilmeli dünya sevdalısı, kandadır ateş
gemisi, kadının uykusundan biçilen yelken
bezi yüzdürür meçhule gidenin kalbini.
Ah bir dedikodudur hayat
sıkıntı verip huzuru vaadeden:
tek armağan uğurlanış sözleri.
Nella casa di Cristoforo Colombo
 
Tra le orme dei suoi piedi
l’uomo deve a volte porre un oceano;
anche se nel cuore riposano le terre che ha scaldato
dev’essere l’eroe crudele di tutti gli abbandoni.
Si è vista spesso l’aquila tornare dalla
costa, o la tigre predatrice ritrarsi dal mare
ma almeno una volta quel che dici uomo
deve lasciarsi dietro le tombe degli avi,
partire per isole lontane d’ardenti e sfiatanti
vulcani perché il suo nome sia proferito dal fuoco
che arde la sua casa da dentro una roccia.
L’innamorato del mondo lo sa, è nel sangue la nave di fuoco,
la vela intessuta dal sonno di donna
fa navigare il cuore di chi volge all’ignoto.
Ah è un pettegolezzo la vita
che reca danno per promettere poi pace:
unico dono sono le parole di augurio.
 
Yalnızlığa veda
 
Yalnızlığın da ucuna geldim,
sırtımda kederin hançeri,
saplanmadan hep tehditle yürütür beni.
Bilmem neden ve nasıl çıktım bu yola,
vardır elbet başlangıcı bu halin;
ben de bir harmandan savruldum sonunda,
konmasız uçtum peşinden kadın denilen hayalin.
Hayatmış ama asıl beni kandıran cilve.
Yine de bir şey verdi diyemem bana bu derin
tasavvur ve yeryüzü meridyenlerle kestiğim özlü
çamur kerpici iliğimde kurur, ağrısı yüzüme vurur.
Ah ne vedadır ne vebadır ne vabaldir bu!
Gitmek değil, artık dağılmak benimkisi
tozuyan aklım ve hafızamla.
Bitsin artık bu şiirler, bu kitap, bu içe dönük cihannüma
Hayalse katili bir insanın
cesedi vurmaz hiçbir kıyıya.
 
Addio alla solitudine
 
Anche al termine della solitudine sono giunto;
sulla schiena il pugnale di tristezza
senza piantarsi mi guida con perpetua minaccia.
Non so perché né come abbia preso tale strada,
ma di certo ebbe un inizio questa condizione:
del resto anch’io fui scagliato dal covone
volando senza posa dietro al fantasma detto donna.
La vera capricciosa a ingannarmi fu però la vita!
Eppure non m’ha dato molto questa sottile intuizione,
il mattone d’anima e fango tagliato con meridiani terrestri
mi si secca nel midollo, il dolore mi ferisce il volto.
Ah non è peste né addio né peccato questo!
Ormai non è andare il mio, ma disperdersi
con mente e memoria sollevanti polvere.
Abbiano ora fine queste poesie, questo
libro, questa ripiegata mappa del mondo.
Se ne è fantasma l’assassino, un cadavere
d’uomo non toccherà mai alcuna riva.
 
Bozkır vedası
 
Bir keder işaretidir bozkırda insan,
imge yüklü bir ağaç, salınır özür vadisinde;
yıkıntı gelir ardından, leş sırtarır tene. Gün
gelip bozkıra çıkınca insan
geniş bir solukla bakar kendine,
bakar varlıkların gözbebeğine:
Yüzünde bidüzüye yağmur,
yollanır Tanrı’nın metruk evine.
Nicedir terk edilmiş, nicedir zamansız,
son bir uğultu bile yok cezadan ve şefkatten.
Bozkıra çıkınca sorar insan, neden,
neden Tanrı bize karşı böyle meraksız…
Bir toz bulutudur bozkırında insan…
 
Addio della steppa
 
Nella steppa l’uomo è un segno di tristezza,
albero carico d’immagini, ondeggia nella terra del perdono.
Dietro a lui avanza la rovina, carcassa che ghigna alla carne.
Giunto il giorno l’uomo va alla steppa
e con vasto respiro si guarda, “pupilla delle creature”.
Sul volto acqua senza fine,
avanza verso la casa desolata del Dio.
Da molto abbandonato, da molto senza tempo,
neanche da pietà o castigo giunge un ultimo sussulto.
Quando avanza nella steppa l’uomo si chiede perché,
perché Dio ci sta innanzi tanto indifferente.
Nella sua steppa l’uomo è una nube di polvere…
 
 
Adnan Özer è nato nel 1957 a Gazioğlu, una piccola cittadina turca nei pressi del confine con la Bulgaria. A causa del lavoro del padre, funzionario statale, ha trascorso i primi anni della sua vita tra le città di Istanbul, Silivri, Çatalca e Batman. A partire dagli anni dell’università Özer s’è trasferito definitivamente a Istanbul, dove vive ancora oggi. Nel 1981 ha pubblicato il suo primo libro di poesie Ateşli Kaval. Nel 1991 il suo quarto libro di poesie Zaman Haritası ha ricevuto il prestigioso premio letterario Cemal Süreyya. Le poesie di Özer sono già state tradotte in tedesco, spagnolo, portoghese, rumeno e macedone. In italiano è uscito La forza delle lacrime (Prova d’artista /Galerie Bordas, Venezia 2014, traduzioni a cura di Luis Miguel Selvelli, immagini di Hervé Bordas, titolo originale Gözyaşlarının gücü) in edizione limitata. Fondamentale è stato il contributo dato da Özer alla vita culturale del suo paese, nel ruolo di fondatore di case editrici, direttore di riviste letterarie, organizzatore di festival di poesia, tra cui quello di Istanbul. Tra le sue opere si contano anche traduzioni dallo spagnolo, racconti per bambini e saggi di critica letteraria (su Victor Jara e su Fernando Pessoa).

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