Dalla prefazione di Anna Maria Curci

Martirio e poesia: testimonianza, astuzia, scandalo, interrogazione inesausta, ferita aperta, prodigio d’amore. No, non è una mescolanza casuale di concetti contrastanti, fumo negli occhi per stemperare, annullandolo, il paradosso, per distogliere dalla temerarietà del filo rosso prescelto, dal momento che il martirio è divenuto a sua volta categoria abusata e martoriata. Niente di tutto questo, bensì, in una sequenza in cui ogni elemento è intimamente collegato all’altro, un insieme di nodi e gangli, un universo di costellazioni di significato che brillano e illuminano, si illuminano vicendevolmente e schiudono alla vista possibili sentieri interpretativi. […] Nella raccolta La statura della palma sono tredici martiri dei primi secoli del cristianesimo a dare testimonianza, attraverso il loro canto, non solo di una fede vissuta con estrema consapevolezza, ma anche di una morte cruenta, frutto di uno scontro – l’amore e la “sete insondabile e perenne” di assoluto avvertiti come emancipazione totale dalla schiavitù da un lato, la repressione violenta del potere dai tratti esplicitamente patriarcali dall’altro – affrontato, da parte delle «tredici donne bellissime e dallo sguardo fiero» che narrano il loro martirio, con una capacità argomentativa non comune. Comune a tutti i canti è una critica al potere patriarcale, non disgiunta – e, assieme alla cornice narrativa ideata da Francesca Del Moro, la visione di Maria, il riferimento bibliografico al Vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago è rivelatore – dall’idea di un Padre celeste autoritario e tendente alla scelta di soluzioni sanguinose. […] Il confronto serrato con gli artefici e i mandanti del supplizio ha uno straordinario vigore, una capacità argomentativa che si esprime con lo sgorgare copioso di quesiti incalzanti, dalla logica impeccabile che davvero mette nell’angolo i committenti e gli esecutori della violenza. […] Dalla piaga al prodigio, e al prodigio d’amore: in questo consiste il movimento centrale dei canti raccolti e composti per La statura della palma, movimento che si profila qui come “passaggio del testimone” a tutti coloro che, leggendo e ascoltando, vorranno raccoglierlo, e che conferma la cifra che contraddistingue tutta la poesia di Francesca Del Moro.

 

Dalla nota dell’autrice

Tra le storie più affascinanti che ho ascoltato da bambina, mi torna spesso in mente quella della “O” del dattero. Per anni la mia nonna paterna, Lea, me l’ha ripetuta a Natale mostrandomi il cerchietto impresso al centro dei noccioli dei datteri secchi e ho a lungo sospettato che se la fosse inventata. La leggenda è effettivamente poco nota e circola in almeno due versioni. […] Pressoché sconosciuta è una terza versione, più inquietante. Ve la racconterò nelle pagine a venire.

Mentre viaggiava in fuga da Erode attraverso l’Egitto, un giorno Maria sedette ai piedi di una palma da dattero, imponente e robusta e, dopo aver gustato uno dei suoi frutti, si addormentò con il piccolo Gesù tra le braccia. Nel sonno le sue preoccupazioni non cessarono e le ispirarono un sogno che sembrava prevedere sciagure per molti anni a venire. Aveva da poco chiuso gli occhi quando credette di vedere arrivare tredici donne bellissime e dallo sguardo fiero, che si fermarono proprio davanti a lei, una di fianco all’altra. La prima disse di chiamarsi Agata e cominciò a intonare un canto enigmatico. Dopo di lei, a una a una, cantarono le altre donne [Agnese, Caterina, una regina dal nome sconosciuto, Cecilia, Perpetua, Felicita, Giuliana, Apollonia, Giulia, Margherita, Sofia, Lucia]. Al cadere della testa di Lucia, Maria riaprì gli occhi, tremando dal terrore. Guardò il figlio che teneva in braccio, l’innocente da cui, senza sua colpa, sarebbero discese tante disgrazie. Per un attimo si chiese se non fosse meglio consegnarlo a Erode per impedire il compiersi della profezia sognata ma subito venne sopraffatta dall’amore e allontanò da sé quel pensiero. Alzò il viso al cielo e levò un grido di dolore che si incise nei noccioli di ogni dattero della palma che la sovrastava e in ogni nocciolo di dattero in ogni parte del mondo. Finché una luce le scese sul viso, una mano le sfiorò la fronte e dimenticò

 

Da La statura della palma. Canti di martiri antiche (Edizioni Cofine 2019)

 

AGATA

Una volta, due, tre, quattro
gira e rigira la tenaglia
sul battito del cuore snudato
gira rigira e taglia.

Non nascondermi, Cristo, il tuo volto
nel buio della cella lo ricerco.

La notte con la mano adunca
mi stana la parte oscura
la parte mia che dubita.
Appeso ninnolo sbreccato
scivolo dentro me, in me ricado.

Una volta, due, tre, quattro
gira e rigira la tenaglia
sul battito del cuore snudato
gira rigira e taglia.

Non nascondermi, Cristo, il tuo volto
nel mio pianto sul ciglio lo ricerco.

Covo una larga oscurità
che preme, tu mi aiuterai
tu sei qui per questo.
Pendo campana crepata
battendo un suono cavo.

Una volta, due, tre, quattro
gira e rigira la tenaglia
sul battito del cuore snudato
gira rigira e taglia.

S’impiglia il buio
nei muri, nei musi
dei sorci che brulicano.
Io grido, incrinata lanterna
oscillo a fiamma spenta.
Ora la tua luce, o Cristo
dalle tenebre si scuce.

Una volta, due, tre, quattro
gira e rigira la tenaglia
sul battito del cuore snudato
gira rigira e taglia.

Ecco, la notte si spalanca
al tuo amore che rimargina.

Io butto latte nero, sangue nero
dal mio seno che si stacca.

*

GIULIANA

Se mi rovesci in testa il pentolone
si fonderà l’orecchio con la guancia
l’occhio si incastrerà nella fronte
il naso mi colerà sulle labbra.

Riplasmerai tu il dolce viso
che ti condusse un giorno a farmi sposa?

Inciderai col bulino la fanghiglia secca
mi rifarai più bella?

E se poi mi spaccherai come noce
sgranandomi i gherigli delle ossa
come farai a trovarmi i fianchi
per posarvi, di notte, le tue mani?

Oggi le nozze sono consumate
oggi rinnoviamo le promesse.

Sulle mie bianche scapole ricade
tutta scintillante la veste nuziale.
Una musica sale, iniziano le danze.

Quale ballerina avrà vita più sottile
e così esili braccia e dita tanto filiformi?
Chi mai infilerà con altrettanta eleganza
nello scarpino il piede affusolato?

Offerte flessuose alle tue dita
le trentaquattro vertebre ondeggiano
vedi il perfetto candore
della cipria che m’imbelletta?
Vedi come biancheggia
la collana dello sterno?
Com’è delizioso il corpetto
del costato che mi adorna?

E le giunture delle falangi
lo vedi come m’inanellano?
Che bel bracciale di perla
splende tra l’omero e l’ulna?

Quale ballerina mai danzerà più leggera?
Quasi senza peso alle tue braccia
volteggio, piroetto, arabescando nell’aria.

Come incanta la grazia dell’umana armatura!
La carne è effimera e lo scheletro
è fatto per nutrire una passione duratura.

Mio caro, come vuoi, mi ti concedo
entra in me senza sforzo, sono cava.
Orsù ripeti la parola amore
rinnovami gli eterni giuramenti
immergi gli occhi nell’abisso dei miei occhi
posami un bacio, a suggello, sui denti.

*

APOLLONIA

Dicevano che avevo un bel sorriso.
Mi hanno gettato sul viso questo bavaglio di sangue.
Quanti sono i topolini che correranno a riscattare
le immacolate pietre perse?
Come se fosse un gioco, le cerco tra la gente.

Se lo vedesse Cristo, il mio volto,
mi bacerebbe in fronte, mi bagnerebbe
di pianto le guance, mi crescerebbe un riso nuovo.
Che nessuna tenaglia strapperebbe.
Se solo Cristo lo sapesse.

Sarebbe stato meglio se mi avessero accecato
non avrei visto il massacro.
Guarda, o Dio, la creatura a tua immagine
è questo l’uomo: sei contento?

Vedi come si allarga la primigenia macchia?
Come ovunque si rimoltiplica l’archetipico crimine?
Dimmi: è questo che pensavi?

Vedi che provano a estrarre bestemmie
dalla mia bocca vuota e dolorante.
Ma non un suono uscirà da questo scempio di carne.

All’uomo serve un nemico per dire di essere vivo.
Vi cerca il male per definirsi in quanto bene.
Sopraffacendo si afferma. Misura tutto in differenze.

Adora un idolo manesco e stupratore,
donne assassine, un dio divoratore dei suoi figli
a giustificazione dei suoi stessi delitti.

Non voglio più stare qui
non voglio stare in questo mondo.
Se ce n’è un altro come dici, io ci vengo.

Vedo la macchia di sangue ingigantire
versare ombre sulla storia a venire.
Anche noi non fuggiremo l’inesorabile natura?
Faremo strage di chi non ti adora?

Vedo lontano preparare un rogo
mentre mi frugano nel fiato insanguinato.
Non ho un centimetro di corpo intatto.

È Satana la bestia ovunque sussultante?
O forse è tuo, o Dio, questo respiro micidiale?

Me ne andrò via, ora, rinuncio a tutto, ora.
Mi attende buona, salvifica, la fiamma
mi giunge cara la fine
non voglio più stare qui.

 

Francesca Del Moro è scrittrice, traduttrice, editor, performer e organizzatrice di eventi dedicati alla poesia. È nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. Ha pubblicato le raccolte di poesia Fuori Tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta, 2013), Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014), Gli obbedienti (Cicorivolta, 2016) e Una piccolissima morte (edizionifolli 2017, ripubblicato nel 2018 come ebook nella collana Versante Ripido / LaRecherche). Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa ed è autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire (Le Cáriti, 2010). Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda. Placebo 20Years, edita da Sound and Vision. Fa parte del collettivo artistico Arts Factory, insieme a Federica Gonnelli e alla fondatrice Adriana M. Soldini, e dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi. Cura la rubrica “Poemata.Versi Contemporanei” per la rivista ILLUSTRATI edita da #logosedizioni.

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