Dalla prefazione di Giulio Mozzi

Noemi De Lisi […] ci presenta, qui, ne La stanza vuota, un oggetto raro nella produzione letteraria italiana: un poemetto, o un incastro di tre poemetti, a scelta (e non cambia molto), comunque una roba continuativa di qualche centinaio di versi e quasi quarantamila battute. A vedere certi versi lunghi lunghi, per esempio quelli lunghissimi della lassa iniziale, qualcuno potrebbe storcere il naso e dire: «Ma questa è prosa! Questa è prosa con degli a capo ogni tanto!»; e a questo lettore schizzinoso mi tocca rispondere (a) che siamo nell’anno duemila e passa e che tecnicamente buona parte della migliore poesia del secolo ventesimo è del tutto estranea alla metrica classica, o se la adopera solo per prenderla a gabbo, o si fa delle ragioni metriche tutte per conto proprio; e (b) che ci sono scritture poetiche che basta leggerle a voce alta (o immaginarne una lettura a voce alta, chi è capace di farlo) per sentire che il verso c’è, ed è sonoro al punto giusto, e si organizza attorno alle cesure interne; e che di verso in verso ci sono ripetizioni e variazioni ritmiche, e che certi scarti improvvisi salvano il tutto dal ronron, e che l’inserzione di dialoghi produce un supplemento d’effetto quasi teatrale, e così via; e, soprattutto, che l’organizzazione delle strofe e delle lasse è ferrea. Se, da un secolo in qua almeno, l’unità di organizzazione fondamentale non è più il verso, ma la strofa, questa ferreità è davvero notevole. […] Dei contenuti, tanto è accessibile e appassionante la materia, non dirò nulla se non questo: all’inizio penserete che la stanza vuota (l’oggetto, dico, nominato nel testo) sia un’allegoria (della vita familiare, della vita in generale, della poesia, del dubbio esistenziale o quel che vi pare); e poi, proseguendo, capirete che non lo è per nulla. Perché nella memoria non vi resteranno concetti, vi resteranno oggetti. Vi resterà una stanza.

 

Da La stanza vuota (Giuliano Ladolfi editore, 2017)

Dalla sezione Io e mia madre

II

Aveva scelto pochi ricordi da ripetere a memoria.
Vissi con lei così a lungo che ignaro li imparai tutti.
E se lei cominciava a recitare:
“Presi a scendere la rampa correndo,
avevo in braccio il mio bambino,
il suo corpo sussultava a ogni gradino
mentre io lo riempivo di lacrime”.
risuonava in me come un vissuto da protagonista.
Mi sorprendevo a imitare la sua voce al telefono,
l’abitudine di premere piano una mano sul petto
mentre l’altra porta il cibo alla bocca socchiusa.
Spesso mi sorpresi in queste pose
e mordendo le unghie di nascosto
mormoravo: “Sembro mia madre”.
Abitavamo una casa troppo grande,
ovunque mi voltassi era presente:
in fondo all’eco del corridoio,
negli scricchiolii delle persiane.
Una volta saltellò sul posto
ora su un piede, ora sull’altro
presa da un’infantile frenesia
davanti a un cesto di datteri maturi.
Sceglieva i migliori agitando l’indice su di essi,
cantilenando fra sé: “Questo mi piace, questo no”
convinta che io non la vedessi.

*

IX

Da ogni profilo somigliavo a mia madre,
gli altri me lo ripetevano come un insulto:
“Sei troppo magro per essere un maschio!”
Con lei scambiavo tutto: le lenzuola, le posate,
eravamo gli stessi e a volte mi spaventavo
quando un sorriso mi cambiava la faccia.
Solo la voce era diversa, così la facevo più sottile,
spesso mi concentravo dopo un colpo di tosse,
lei si innervosiva: “Quando la finirai con questo gioco?”
Poi mi sedevo al tavolo della cucina, al suo posto.
La schiena curva con la guancia sul pugno,
la fronte piena di grinze, così, la fissavo:
lei rannicchiata sul petto anche se in piedi,
il corpo fermo, ossuto, sparito, davanti a me.
La vena più grossa affiorava sul braccio per la magrezza,
lei ne andava fiera e si divertiva: “Guarda come batte il sangue!”,
si avvicinava, e vedevo la pelle sciogliersi
attorno al punto più gonfio dove pulsava la vena.
Mia madre rideva, ci metteva su il dito:”Prova anche tu”.
Io scuotevo la testa, sorridevo per imitarla
e mi sentivo in colpa se abbassavo gli occhi per il ribrezzo.

 

Dalla sezione Io e Anna

XVI

Nel tuo profondo che ignori avrei voluto raggiungerti,
nello strano evento delle tue braccia macchiate di lividi
e della mia bocca che trema nel dire: “Non volevo farti questo”.
In ogni stretta, morso, schiaffo che ti ho dato per scoprire
la parte dove ti riassumi tutta e avrei potuto impararti subito.
Strapparti via quello che di me rimane nelle tue intenzioni,
spogliarti fino a non riconoscermi più: “Chi è stato a farti questo?”.
Dimenticare me per primo poi ricordare te in ogni cosa,
ripetertelo a memoria e imitarti così bene da confondermi.
Diventare te per poterti finalmente amare nell’unico modo,
diventare te senza lasciarti ricordare nulla della mia vita:
delle mie serate per strada a camminare da solo, senza soldi,
di quella vecchia casa piena di rumori e pianti di mia madre,
del letto sempre disfatto, le scarpe scollate, il dente spezzato,
della foga sopita nel mio corpo che batte quando resto immobile
mentre una voce mi chiama da dentro col tuo nome e sanguino.

*

XXI

La città sembrava la mia casa,
i vicoli spogli, lucidi a volte
nella notte dopo la pioggia
erano il lungo corridoio fino alla mia stanza,
quella che tu dicevi vuota
e io ti odiavo perché dicevi una cosa non vera.
Per questo ti immagino mentire su tutto,
forse non sei neanche partita e mi segui
per la città, attenta che non mi volti.
Mi guardi camminare racchiuso nelle spalle con le mani in tasca
e lo fai come se mi spiassi dalla finestra della stanza,
quella che mi teneva sveglio tutta la notte:
“Dalla finestra sento il gallo cantare ogni ora,
non l’ho mai visto ma mia madre dice che c’è da sempre.
Dalla finestra si vede una specie di giardino in fondo,
lì c’è il gallo e ogni volta che canta,
qualcuno apre gli occhi e mi spia dalla finestra.”
Quando te lo raccontavo mi davi uno schiaffo:
“Sono stanca di tutte le tue storie!”.
Mi siedo sul marciapiede e mi tengo la guancia
come se mi avessi appena colpito, come se stessi dormendo
e non mi volto per non sorprenderti a spiarmi
lì dietro lo spigolo di un palazzo.

*

Dalla sezione Noi

XXV

Solo i nomi erano diversi e per noi erano come cose.
Oltre questo non avevamo nient’altro di vivo,
tutte le nostre cose erano prima le cose dei morti.
“Mi servono delle scarpe.”
“Prendi queste, sono ancora buone.”
Attraversavamo la casa mentre loro dormivano,
camminavamo al buio per non svegliarli.
Immaginavamo di accendere la luce e trovarli
come fosse normale, a piedi scalzi, invecchiati.
Le suole cigolavano, dopo anni allo stesso modo,
ci voltavamo indietro nervosi e aspettavamo.
Ma nell’antico rumore era solo il nostro passo
lo riconoscevamo, nessuno più si avvicinava.
Portare i nomi ci rallentava, ci sciupava, ci feriva
ma non avremmo potuto restare in piedi senza
quel peso a bilanciare le altre parti, a tenerci
fermi, nella nostra forma, lontani dal tremore
della mano sulla maniglia, davanti alla stanza.
Quella dov’eravamo tornati dopo tutta la notte,
quando ricordavamo chi prima di noi c’era stato.
Ma eravamo noi a far muovere le cose dei morti,
ad aprire la nostra stanza nel buio, a fare un passo
in avanti per sentire il taglio fra il pieno e il vuoto.

*

XXXIII

Non avevamo più parlato dopo il colpo di vento,
la polvere si era alzata dalla strada e ci era finita negli occhi.
Figlio mio, perché mi devi punire?
In silenzio per la voce lontanissima trattenevamo il respiro:
era rauca, la riconoscevamo, ci chiamava fra il rumore.
Mi hai chiamato e sono nato come volevi tu.
Negli occhi la polvere si raggrumava e diventava pietra,
non sopportavamo più il rimprovero di una ferita.
Quando fai questa smorfia sembri me da vecchio.
Quella voce ci consolava, eravamo muti ma dentro
la ripetevamo con le stesse parole raschiando la gola.
Hai una cosa nell’occhio, avvicinati che ci soffio su.
A ogni parola ci voltavamo per ritrovarla, ma si era alzata
davanti a noi, ci dava le spalle, chi cercavamo nel fondo.
Ora che ti ho liberato tornerai a parlarmi?
Allungavamo una mano per afferrarle i capelli
e la vedevamo cadere prima di averla sfiorata.
Smettila di fare il morto, mi stai facendo arrabbiare.
La sua ombra si muoveva sui nostri corpi fermi, rinchiusi
ma l’affanno del respiro tradiva tutta quell’apparenza.

 

Noemi De Lisi è nata a Palermo nel 1988. Si è laureata in “Giornalismo per uffici stampa” presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi dal titolo “Dalla notizia al romanzo: volti diversi della cronaca nera”. Nel 2009 le sue poesie sono state pubblicate su Nuovi Argomenti  N° 45. Ha frequentato corsi di scrittura con Giulio Mozzi e Carola Susani. Nel 2015 è semifinalista al Premio Rimini e viene inserita nell’antologia edita da Giuliano Ladolfi Post ‘900. Lirici e narrativi . La stanza vuota (Ladolfi, 2017) è il suo libro d’esordio.

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