Nati negli anni Ottanta è un progetto a lungo termine che ha l’intento di riassumere e catalogare le esperienze poetiche individuali o collettive portate avanti da autori nati in Italia tra il 1980 e il 1989. Si tratta di poeti cresciuti letterariamente in ambiti e contesti diversi e dunque legati spesso a modi di intendere il discorso in versi del tutto differenti. Per segnalare i libri dei poeti nati negli Ottanta scrivete sul form di contatto.

 

Noemi De Lisi è nata a Palermo nel 1988. E’ laureata in “Giornalismo per uffici stampa” presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi dal titolo “Dalla notizia al romanzo: volti diversi della cronaca nera”. Nel 2009 le sue poesie sono state pubblicate su Nuovi Argomenti N° 45. ha frequentato corsi di scrittura con Giulio Mozzi e Carola Susani. Nel 2015 è semifinalista al Premio Rimini e viene inserita nell’antologia Post ‘900. Lirici e narrativi edita da Ladolfi. La stanza vuota (Landolfi Editore, 2016) è la sua prima raccolta.

 

 

 

 

I

In fondo al lungo corridoio di penombra, senza voci, c’era la stanza vuota.
La casa era vecchia, non era manco nostra: soli io e mia madre l’abitavamo.
“Sei stato sfortunato a nascere qui, figlio mio”, mi diceva battendosi il petto
mentre io annuivo e strizzavo la faccia in un sorriso come mi aveva insegnato.
Sempre passavo davanti alla stanza vuota: tutto era fermo, antico, impolverato.
Qualche volta ci trovavo dentro mia madre. Stava seduta sul letto rifatto
il capo chino, le mani intrecciate sul grembo. Subito facevo un passo indietro
per non farmi vedere, mi appoggiavo alla parete e lei piano piangeva:
“Ora, mamma, perché te se nei andata?”
Poi mi allontanavo in punta di piedi e facevo finta di non averla sentita.

Di notte dei rumori venivano dalla stanza vuota: scricchiolii, tonfi,
qualcuno chiamava. Rimanevo fermo, gli occhi spalancati nel buio
e non riuscivo a fare un passo verso quel fondo lontano che s’agitava.
Mia madre dormiva con affanno e sembrava parlarmi anche da muta:
“Un’altra madre per un’altra vita avresti potuto averla, figlio mio”.
E un grido fatto col mio nome cominciava a rincorrermi dalla stanza.
Gli andai incontro col passo nel buio mentre soffiavo tra i denti: “Shhh…”.
Spinsi l’interruttore, era tanto che non la vedevo accesa come sempre era stata
quando tornavo a casa ed era la prima cosa che vedevo: il segnale, il saluto
la luce riversa sul pavimento nella solita forma davanti la porta aperta.

Entrai nella stanza accesa con una mano sugli occhi perché mi facevano male.
Pensavo a mia madre addormentata dall’altra parte del corridoio: “Shhh…”.
Mi sedetti sul letto col capo chino, le mani fra i capelli. Tutta la stanza era cambiata.
Ogni sguardo mi ricordava una cosa diversa: l’armadio spostato, le riviste impilate,
le scatole con le fotografie, i sacchi colmi di vestiti, il lume rotto sul comodino.
Mi alzai, tentennai, aprii le mani per prendere qualcosa e poi le chiusi nei palmi:
“Cos’è questo disordine… chi c’è stato qui?”
Da quando ero entrato, nessun rumore più scuoteva la stanza vuota, nessuna voce
chiamava quel nome. E stavo in piedi fermo com’era giusto fare, eppure ero vivo.
La casa era buia, solo una stanza era accesa: “Ora, mamma, perché te se nei andata?”

 

 

II

Aveva scelto pochi ricordi da ripetere a memoria.
Vissi con lei così a lungo che ignaro li imparai tutti.
E se lei cominciava a recitare:
“Presi a scendere la rampa correndo,
avevo in braccio il mio bambino,
il suo corpo sussultava a ogni gradino
mentre io lo riempivo di lacrime”.
Risuonava in me come un vissuto da protagonista.
Mi sorprendevo a imitare la sua voce al telefono,
l’abitudine di premere piano una mano sul petto
mentre l’altra porta il cibo alla bocca socchiusa.
Spesso mi sorpresi in queste pose
e mordendo le unghie di nascosto
mormoravo: “Sembro mia madre”.
Abitavamo una casa troppo grande,
ovunque mi voltassi era presente:
in fondo all’eco del corridoio,
negli scricchiolii delle persiane.
Una volta saltellò sul posto
ora su un piede, ora sull’altro
presa da un’infantile frenesia
davanti a un cesto di datteri maturi.
Sceglieva i migliori agitando l’indice su di essi,
cantilenando fra sé: “Questo mi piace, questo no”
convinta che io non la vedessi.

(Visited 416 times, 1 visits today)