Dalla prefazione di Salvatore Ritrovato

Una poesia all’esordio ha spesso il sapore di una poetica in nuce. La casa bianca di Emanuele Andrea Spano mi pare che vada proprio in questa direzione, come se il soggetto che entra in scena si interrogasse, per prima cosa, sul proprio destino guardando non allo stato presente delle cose, tantomeno al futuro, bensì al passato, o meglio a una forma di “origine” dal quale non scaturisce un vano rimpianto d’antan, ma si annida il disegno elementare di una vita vera, anche se mai vissuta. Una raccolta sull’“appartenenza”, dunque, che declina la fioritura di una parola nuova, ne percorre la linfa che tra potature e innesti ritrova le radici in una “casa bianca”, dislocata in un luogo, un Sud non diverso da tanti (a cominciare dall’emblematica breve poesia d’apertura, l’«azzurro», gli «ulivi», e andando avanti, oltre il «rosario», le «pietre», i «campi arsi», che alla fine però si chiarisce, senza smentire la dimensione realistica della visione, come un «Altrove»). Un luogo che pur geograficamente lontano da quello in cui vive il poeta, garantisce la solidità dell’istanza poetica. […] È bene però precisare che in questa casa di muri e calce, ma anche di carne e volti, il poeta vi entra per venirne fuori appena possibile: tanto soffocante potrebbe riuscire il disegno esatto, compiuto del ricordo che la scrittura finirebbe per soccombere, incapace di mettere a distanza il mondo che l’ha nutrita. Non si tratta, infatti, di fare un reportage, o di stendere un memoriale, bensì di distillare il senso di una vicenda circoscritta, che non riguarda direttamente,
in prima persona, il soggetto che scrive, bensì la genesi della sua scrittura, l’incubazione entro un universo di solarità diffusa e profonda. […] Mi piacerebbe però riportare l’attenzione del lettore, prima di chiudere questa breve presentazione, almeno su un paio di aspetti formali che garantiscono la qualità della poesia di Spano, e ne fondano, già a questa prima raccolta, la maturità: penso alla sintassi che talora si disarticola e frantuma (come nella poesia sopra citata) in un fraseggio piano, non privo di improvvise e aspre torsioni, talaltra invece si sviluppa in una più robusta trama di rimandi e riprese che restituiscono l’ambiente nei suoi dettagli; ma penso anche all’uso costante dell’infinito verbale, che staglia la visione di quel passato in una età indefinita, ovvero non finita, davanti allo sguardo di chi ne cerca il limite. Ma ecco, la civiltà cui ci riporta quella linfa non è sopravvissuta alle intemperie e ai disagi della storia; anzi, si è concrezionata in una casa in cui indizi e presagi di un interiore paesaggio delle rovine, diversamente da quanto avviene nelle poetiche decadentistiche del secolo scorso, sono assorbiti completamente dall’opera del tempo, e in quanto tali, oltre a non poter essere valorizzati fuori dalla storia, vanno apprezzati. Il poeta, insomma, non è «morto ai paesi», per riprendere la celebre raccolta di Alfonso Gatto (che ha rappresentato sicuramente un punto di
partenza per la riflessione dei poeti che sarebbero arrivati dopo, a partire da Sereni e Luzi, richiamati dallo stesso Spano, quasi in funzione tutelare, nelle epigrafi della raccolta), sia perché egli non ha un paese in cui tornare (semmai il paese è dentro), sia perché la stessa civiltà di quei paesi è ormai chiusa nell’opera di chi ne onora, pur non avendola vissuta, la dimensione storica, e ora ne sa cogliere il valore esistenziale.

 

Da La casa bianca (Puntoacapo edizioni, 2018)

Ci eravamo detti che non avremmo
pianto, che – si sa – la vita assegna
o toglie per calcoli non dati,
che il corpo scivola tra il bordo e
il niente, al primo soffio, e il letto
non fa in tempo a svuotarsi, che il bianco
annega nel lenzuolo e la morfina
smette la sua goccia, prima che sia alba.

*

Se un confine esiste è lì
nei campi arsi, dietro la cisterna
che tracima, nel gorgo che inghiotte
alberi e case e risputa l’autostrada.
Qui tutto è traccia, terra da dissodare,
solco nella polvere. E che alla polvere
torni anche la lamiera, il volante,
la stretta delle mani che appena
tremano a un passo dall’asfalto.

*

Avevamo discusso a lungo se
demolire gli scalini che si perdono
nel vuoto del cartongesso,
se scorticare la volta dalla calce
o aprire la nicchia del comò fino
alla luce fredda della finestrella,
se fare spazio allo spazio, costretto
tra gli angoli e le curve della stanza,
ingolfato di foto, di bomboniere
lasciate alla polvere del tempo, erose
dal tarlo che spacca il legno dell’armadio.
Come se esistesse una mappa, una traccia
da seguire oltre la morte, una geografia
degli affetti da consegnare alla casa.

*

Le mura di famiglia I

Mia nonna aveva mani nodose
di contadina e non una ruga che dicesse
dei sei figli, della casa su tre piani,
degli anni lunghi a fianco del marito
malato; mio nonno aveva i polmoni
bruciati dalle nazionali, dal fumo
dell’immondizia arsa nei campi,
fuori dalla vista miope delle case.
Se ne sono andati entrambi in un letto
d’ospedale – come tanti – lui giallo
per il pancreas impazzito, lei
dietro un vetro, senza più parole,
calva, i capelli lasciati in pegno
a germogliare altra vita altre voci
domani.

*

Viale delle vigne

1.
Un tempo, prima delle cisterne, qui
erano spiagge. Ci andava mio padre
con il cugino diventato pazzo
– per troppo amore o troppo poco –
Si era consumato le mani a forza
di sfregarle, ma la notte che sua
madre morì anche il tetto crollò
e la trave lo mancò per un palmo.

2.
Il porto era meno fondo e la banchina
sapeva di migranti tornati per
il santo, per ferragosto o per un qualche
funerale. Mia zia aveva il bar fuori
dal paese. Si attardavano a turno
i pescatori, che già era mattina.
Chissà a chi apparteneva il figlio
del peccato, il segreto cresciuto
nel grembo, il suo fiore impazzito?

 

Emanuele Andrea Spano (Novi Ligure, 1983) si è laureato a Pavia in Lettere Moderne sotto la guida di Clelia Martignoni e successivamente ha discusso una tesi di dottorato a Padova sulla lirica giovanile di Alessandro Parronchi, come allievo di Silvio Ramat. Sempre su Parronchi, ha pubblicato uno studio apparso sulla rivista «Forum Italicum» (1/ 2010) e ha curato il volume Riappari in forma nuova. Un autocommento inedito di Alessandro Parronchi (Mauro Pagliai, 2012). Ha curato, insieme a Davide Ferreri, le antologie Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (Puntoacapo, 2012) e Poesia in provincia di Alessandria (Puntoacapo, 2014) e, insieme a Mauro Ferrari e a Vincenzo Guaracino, il Fiore della poesia italiana vol. 2 – I contemporanei (2016). È redattore della casa editrice Puntoacapo, per la quale dirige la collana Collezione Letteraria ed è nella redazione dell’almanacco della poesia italiana Punto . Insegna materie letterarie negli istituti superiori di secondo grado. La casa bianca è la sua raccolta d’esordio.

 

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