Poesia del nostro tempo presenta l’Archivio virtuale de L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie.

Ivan Crico è nato a Gorizia nel 1968, ha vissuto a Pieris fin dalla nascita. Ha iniziato gli studi artistici nel 1981 diplomandosi in pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1992. Contemporaneamente ha approfondito lo studio della letteratura dialettale, italiana ed estera con studiosi come Amedeo Giacomini, Gianmario Villalta (con cui ha iniziato una collaborazione con la maggiore rivista di studi dialettali europea, “Diverse Lingue”) e con Pierluigi Cappello (con cui ha ideato la collana di poesa la “Barca di Babele”, con testi anche di autori friulani, bisiachi, triestini). Dopo essersi inizialmente segnalato come poeta in lingua, nel 1989 ha cominciato ad impiegare anche il nativo idioma veneto “bisiàc”. Suoi testi poetici e saggi critici sono apparsi, a partire dal 1992, sulle maggiori riviste italiane come “Poesia”, “Lengua”, “Diverse Lingue”, “Tratti”, “Frontiera”. Nel dicembre 1997 ha pubblicato Piture, a cura di Giovanni Tesio, per l’editore Boetti di Mondovì e nel 2003, per il Circolo Culturale di Meduno, con prefazione di Antonella Anedda, Maitàni (“Segnali di mare”). Nel 2006, per le edizioni del Consorzio Culturale del Monfalconese è uscita la plaquette “Ostane” (“Germogli di rovo”) e nel 2007 la raccolta “Segni della Metamorfosi” per le edizioni della Biblioteca di Pordenone. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta “De arzent zu” per l’Istituto Giuliano di Storia e Documentazione di Trieste. Della sua poesia si sono occupati i maggiori critici italiani da Brevini a Tesio e Loi. Figura tra i nove autori selezionati per l’antologia “Tanche giajutis” curata da Amedeo Giacomini, che comprende i poeti più significativi nei dialetti e nelle lingue minori degli ultimi decenni del Friuli Venezia-Giulia. Suoi testi compaiono nell’antologia “I colors da lis vos” curata Pierluigi Cappello, Associazione Culturale Colonos, 2006, e nel libro “Cinquanta poesie per Biagio Marin”, a cura di Anna De Simone, Fabrizio Serra Editore, Roma, 2009. Collabora da due decenni alla pagina cultura de “Il Messaggero Veneto”. Ha vinto il “Premio Giuseppe Malattia della Vallata” e nel 2009 ha ricevuto il maggior riconoscimento dedicato in Italia ai dialetti e alle lingue minoritarie, il “Premio Nazionale Biagio Marin”.
da Piture
LISONZ
Par giaroni ciari de gnente me ‘nvïo,
loghi de disért spiandor, onde che ‘l còdul
al se frua saldo ‘nzeà de ziti. Al vént
de boi se ‘ndulzisse cu’l udor fiéul
dei pirantoni; là in cau, smagnada
del ciaro, zente foresta la polsa
zidìna, senza spetar. Del desmentegarme
al me recordo de nóu al se ànema
cui lusori che in alt – virtindo del burlaz –
i se ‘npïa ta le ponte, contra al biau nét.
ISONZO
Lungo greti chiari di niente mi avvio,
luoghi dal deserto splendore, dove il ciottolo
si consuma da sempre abbagliato di silenzi. L’aria
infuocata si addolcisce con l’odore sottile
dei fiori di topinambùr; là in fondo, erosa
dalla luce, gente sconosciuta riposa
in silenzio, senza aspettare. Dal dimenticarmi
il mio ricordo si rianima con i chiarori
che in alto – preannunciando il temporale –
si accendono sulle cime degli alberi, contro l’azzurro puro.
QUESTIONARIO
1. La preghiamo di indicarci i modelli di riferimento (italiani e stranieri) della sua poesia dialettale, dove questi studi e letture l’hanno portata all’individuazione del suo stile.
La necessità di scrivere delle poesie nella mia lingua madre, il “bisiàc”, coincide con la scoperta – fondamentale per me, a diciotto anni – delle “Poesie a Casarsa” di Pier Paolo Pasolini. L’essere nato in un luogo molto particolare, sui confini nord orientali della penisola, nel punto più a nord del Mediterraneo e nell’unica regione d’Europa in cui s’incrocia da più di un millennio la cultura latina, germanica e slava mi ha sempre, fin dall’infanzia, portato ad orientare il mio sguardo anche verso altri paesi, cercando di interiorizzare diversi, a volte lontanissimi, modi di percepire la realtà, da Li Po a Rumi, da Holderlin a Rimbaud, da Rilke a Char.
2. Ci sono differenze significative tra la sua produzione di poesia in dialetto e quella in italiano (se presente)?
Quando scrivo nella mia mente, in modo simultaneo, quasi sempre, mi appare sia la forma nella mia parlata che la sua versione in lingua. Una versione che deve avere, alla fine, un suo senso profondo ed una forma non meno curata del testo in “bisiàc”. Almeno così vorrei. Per questo motivo, nella maggior parte dei casi, le mie traduzioni, in realtà, per me, non sono delle semplici versioni letterali ma dei testi con una loro autonomia (tanto da averli pubblicati talvolta da soli), la possibilità di percepire in diversi modi, da diversi punti di vista, un medesimo sentire.
3. Con quali poeti contemporanei (dialettali, italiani, stranieri) intrattiene un dibattito costruttivo? Con quali ha semplicemente condiviso un percorso di gruppo (blog, riviste, associazioni) o di scambio di opere letterarie? Quali poeti italiani e/o dialettali l’hanno colpita di più?
Ho seguito da vicino, negli anni passati, il lavoro di Amedeo Giacomini e Luigi Bressan, che hanno diretto e curato per molti anni quella che resta, per me, la maggior rivista italiana dedicata alla poesia e agli studi dialettali, “Diverse Lingue”. Ho inoltre ideato assieme a Pierluigi Cappello la collana di poesia “La Barca di Babele”, che ha accolto anche diverse opere in friulano, bisiaco, triestino dei maggiori poeti del Friuli Venezia Giulia. Dal 2010 curo inoltre per il blog “Samgha”, su invito e con l’aiuto di Alessandro Polcri, professore di italianistica alla Fordham University di New York, una rubrica dedicata alla poesia nei vari idiomi locali del mondo. Molto importante è stato, poi, l’incontro con Amedeo Giacomini, come dicevo, e la lettura dell’opera di Marin, Loi, Scataglini e di due poetesse, purtroppo poco note ma per me molto importanti, come la Vallerugo e la Dorato. Ma potrei fare anche molti altri nomi, visto il livello molto alto della produzione poetica nei vari idiomi italiani.
4. Quale l’immaginario o le immagini più diffuse, nella sua opera in dialetto? Ci sono differenze tra l’immaginario che usa in dialetto e quello delle sue opere in italiano o in prosa (se presenti)?
Sono nato in un piccolo paese lontano dai grandi centri, a Pieris, in provincia di Gorizia. Una terra unica, stretta da due fiumi, l’Isonzo ed il misterioso Timavo, abbracciata dal Carso e dal mare. Un paesaggio così ricco di panorami e tante culture e lingue antiche – veneto, friulano, sloveno, tedesco – che mi ha portato fin da piccolo ad amare la natura e, nel contempo, a dovermi confrontare con l’altro, cercando il dialogo anche quando il dialogo sembra impossibile, capendo che il nostro punto di vista è sempre, in fondo, solo uno dei tanti possibili (e sempre perfettibili) punti di vista. E che molto altro esiste oltre l’uomo. Per eseguire al meglio certi lavori, alcuni strumenti sono più adatti allo scopo di altri: così, per me, anche, le lingue che possono, a seconda dei casi, dei contesti, dire in modo più o meno efficace ciò che sentiamo. Portarci in luoghi di noi che non conosciamo.
5. Quali teorie (estetiche, politiche, etiche, critiche, etc…) sono presenti all’interno della sua poetica? Il suo modo di lavorare a un’opera di poesia (il processo formativo che ha usato) è stato influenzato da queste teorie? Se sì, può descrivere anche le modificazioni della sua scrittura/operatività in poesia, in dialetto, nel corso degli anni?
Ovviamente le letture che facciamo, le persone che incontriamo, lasciano sempre una traccia, più o meno percettibile, più o meno profonda, dentro di noi. Una frase di Saint John Perse o di Cristina Campo, la voce di Bonnefoy o di Loi che mi parla della sua poesia. Per il resto, non ho mai deciso a tavolino di scrivere una poesia. A volte passano tempi interminabili tra un testo e l’altro, altre volte mi è capitato di scrivere in una settimana un’intera raccolta. Sento di non aver, almeno in questa decisiva fase iniziale, alcun controllo. L’unica cosa che so è che devo tenere la porta aperta, non cedere al sonno perché l’ospite può arrivare, senza preannuncio, in ogni momento. I poeti, come ricordavano i mistici sufi fino a Biagio Marin, che su questo concetto ha scritto prose e poesie memorabili, non sono altro che canne vuote in attesa del vento capace di trasformarle in flauto. A noi non resta che captare questo canto improvviso, cercare di trascriverlo non dimenticando nessuna nota, cercando di non smarrire – a volte attraverso un lavoro lunghissimo di ricostruzione – la memoria della più impercettibile sfumatura.
6. Il suo modo di scrivere in dialetto è rappresentativo del parlato della sua area di appartenenza (paese, città, provincia, regione)? Quali le differenze con il parlato? Ha introdotto altre lingue/linguaggi/codici/segni nella sua opera in dialetto? Ha recuperato espressioni linguistiche arcaiche?
Sono fra gli ultimi nati in un’epoca, alla fine degli anni Sessanta, non ancora influenzata dai mass media, quando si impiegava abitualmente in paese una parlata in cui sopravvivevano molti termini antichi ed espressioni particolari. Parole spesso oggi non più in uso, che si sono insinuate, con forza, fin dagli inizi, come chiedendo asilo ed una disperata ricerca di protezione dalle devastazioni del tempo, nelle mie poesie. Le differenze con il parlato di ogni giorno sono, dunque, molte e molti termini, anche per chi vive in questi paesi, risultano ormai spesso incomprensibili. Anche se il bisiaco è ancora molto diffuso, seppure in una forma più moderna, influenzata dal vicino dialetto triestino, in parte, dall’italiano. Non mi sono mai posto, del resto, il problema di dover risultare immediatamente comprensibile a chi mi stava vicino. La poesia deve cercare di parlare ad ogni uomo, senza porsi il problema di sapere dove o in quale tempo vive o vivrà.
7. In percentuale, quante persone pensa parlino in dialetto nella sua area di appartenenza (paese, città, provincia, regione)?
La mia parlata oggi è impiegata credo, più o meno abitualmente, ancora da circa 40.000 persone. L’attuale tendenza, da parte dei genitori più giovani, a parlare in lingua ai nuovi nati potrebbe ridurre drasticamente il numero dei parlanti nei prossimi decenni. Nella regione in cui vivo, comunque, moltissime persone impiegano ancora abitualmente, anche negli uffici o nelle scuole, le loro parlate native, come il friulano, il tedesco, lo sloveno ed i suoi diversi antichi dialetti (come il resiano), il gradese, il maranese, il bisiaco, il triestino, il muggesano, il veneto goriziano: un patrimonio linguistico davvero unico, segno di antiche migrazioni, incontri e incroci capaci di dar vita a nuove culture e nuovi linguaggi.
8. La sua regione presenta leggi di tutela del dialetto o supporta le pubblicazioni in dialetto con qualche legge? E’ in grado di illustrare queste leggi (o dare i loro riferimenti)?
La nostra regione tutela tre lingue minoritarie, come il friulano, il tedesco e lo sloveno. Recentemente è stata approvata anche la legge di “Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella Regione Friuli Venezia Giulia” n. 5 del 17/02/2010. Si è lavorato finora soprattutto, anche con ottimi risultati, all’interno delle scuole, pubblicando dizionari e testi storici, mentre alla poesia, pur avendo ottimi poeti nei vari idiomi della regione, non è stato dato ancora il giusto risalto da parte delle istituzioni locali. Compiendo un grave errore, secondo me: perché nulla, anche se si presenta rivestita di parole antiche, parole che a volte solo pochi conoscono, è contemporaneo e vivo, ancor oggi, come la poesia.
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