Denunciare il senso di perdita, la ‘mancanza’ alla base della scrittura (o di alcune scritture), genera una scissione nel legame tra autore e opera, quest’ultima risultato dello smarcamento inevitabile delle intenzioni prime dell’autore, e quindi da considerarsi, più che incompleta, ‘incompiuta’ e dunque infinita nella possibilità delle significazioni; in tal senso l’opera è sempre oggetto di ‘tradimento’ nei confronti (o da parte?) dell’autore. Oltrepassare questa fase di ‘denuncia’ del non-senso, avendo attestato l’inefficacia di qualsivoglia progettualità, vuol dire porsi non più il quesito dello scrivere inteso come ‘scavo’ nel già vissuto – poiché nell’ipotesi di una ricerca archeologica e in una successiva ricomposizione si rintraccerebbe un senso dell’arte nella sua ‘utilità terapeutica’ inneggiando, mediante la scrittura, all’ennesima struttura ideologica, una ‘militanza’ della ricerca del senso, in cui l’atto creativo si semplificherebbe a carcere metodologico. Non ci si può imporre una ricerca, poiché in essa sarebbero stabiliti a monte ipotesi e conclusioni; se una metodologia dev’esserci, essa esisterà in forma di metodologia ribaltata, di anti-metodo non più applicabile in una scrittura di ricerca – in cui appunto la sperimentazione, più che avvenire, s’impone – ma in una ‘ricerca della scrittura’ che, deleuzianamente, si sviluppi da sé nel corso di un tentativo – la domatura della sensazione – inevitabilmente fallimentare. Essa fallisce a monte poiché far emergere l’’al di là’ della scrittura richiede in prima istanza la sua disgregazione, ricavando l’impossibilità del non-ancora-detto attraverso la fuga dalla possibilità verificatasi e categorizzata del già-detto, semplificando all’osso la Logica deleuziana sulla pittura di Francis Bacon.

Se in quest’opera di Marco Vetrugno, Apologia di un Perdente (Elliot edizioni, 2018) – curioso il lapsus che mi ha colto nell’atto della trascrizione del titolo, refuso per cui l’’apologia’ diviene ‘logica’ – il punto di partenza è proprio un trittico di Bacon, Tre studi per figure ai piedi di una crocifissione, il discorso fin qui tentato è pienamente giustificato. Difatti l’opera di Vetrugno rifiuta a determinarsi – ecco ritornare il concetto di ‘incompiutezza’ – nella sua multi-disciplinareità tra teatro e poesia, senza che queste due dimensioni possano fondersi ma rimanendo allo stadio di forma ibrida, laddove terzo elemento propulsore risulterebbe essere la pittura. L’allestimento architettato da Vetrugno produce uno scenario alienato, una galleria d’arte chiaramente inesistente – mera finzione scenica – in cui il protagonista Ezra s’interfaccia con le opere esposte (Bacon, Van Gogh, Schiele tra gli altri). La scenografia, molto spoglia, consta di queste sette opere d’arte e di una teca in cui è conservato il teschio di una donna, in passato legata sentimentalmente a Ezra; quest’ultimo regge su un braccio ciò che in un primo momento appare nelle sembianze di un bambino avvolto in fasce. Ezra, in una sorta di percorso interattivo – curiosa e non voluta parodia del vacuo spettacolarismo delle mostre multimediali che ultimamente tanto vendono tra i voyeur bisognosi di facili stimolazioni – rilegge la propria storia attraverso i dipinti; e se questi giungono come ad animarsi sotto l’osservazione e i monologhi-deliri di Ezra, ciò riteniamo non avvenga per una grottesca vitalità intrinseca dei soggetti (l’effetto risulterebbe alquanto kitsch) ma per le allucinazioni del protagonista, legato intimamente – e il segreto rimane tutto dell’autore – a quelle raffigurazioni. Ogni elemento in quest’opera è il prodotto di una proiezione: il protagonista come alter ego dell’autore, le opere come strumento di rielaborazione e catalizzatore psichico di Ezra, la galleria d’arte è mera finzione scenica; non solo, ma la stessa poesia, nella cui forma Vetrugno trascrive il monologo lirico, rinuncia a sovrastare formalmente l’impostazione squisitamente drammatica dell’opera, a cui l’autore si affida per la descrizione e la presentazione delle opere d’arte e il dipanarsi dell’azione scenica.

La ‘perdita’ denunciata nel titolo è allora termine ambivalente, non si riduce a qualificare in negativo il protagonista Ezra; appurato e sorpassato il motivo della ‘sconfitta’ – che in ogni caso permane in un’accezione più superficiale – il ‘perdente’ è soprattutto colui che ha (letteralmente) smarrito la vita, il senso del percorso; ad aver perso qualcosa, si badi, non è solo Ezra ma tutta l’arte, la poesia («riscoprendomi disadorno/ privo/ privato di tutta la mia poesia») e la pittura, che abbandonata a sé stessa, privata della visionarietà di un soggetto capace di coglierne l’essenza permarrebbe come elemento scenografico immutabile; se nei soggetti pittorici Ezra individua il proprio panopticon cerebrale, in cui però i rapporti tra carceriere e prigionieri (i dipinti) risultano in un primo momento ribaltati, la situazione può ristabilirsi attraverso la ricollocazione di un elemento simbolo della ‘mancanza’, il teschio della teca estromesso, nell’opera, dall’Occhio di Escher. È nel momento in cui Ezra ripone il teschio nel dipinto che l’apologia può realmente compiersi; l’abbandono dell’oggetto-simulacro è abbandono della colpa, del rito auto-distruttivo della passione, della lotta «intracranica» e «midollare», è abbandono della ferita che minacciava di riaprirsi, poiché se vi è un corpo – intendiamo sia un ‘corpo della scrittura’ che un corpo-Ezra – esso è ormai artaudianamente dis-organizzato a seguito del macello perpetrato dall’autore ai danni del suo ‘doppio’, e non vi è più motivo di riproporre il martirio dell’Io che Ezra ha perseguito come un’«estrema speranza» di nullificazione, ormai cauterizzate le ferite. Alla fine della messinscena Ezra srotola il panno retto col braccio ma sotto di esso non c’è più nulla, o non c’è mai stato. Ferita era la benda e non il braccio.

 

«Ferita era la benda e non il braccio.
Che sia questa e nient’altro, la malinconia (?)»
Carmelo Bene, Macbeth da W. Shakespeare 

 

da Apologia di un perdente

Atto I
Tre studi per figure ai piedi di una crocifissione (Francis Bacon, 1944)

Deposizione dalla croce
deposizione dal letto
odore di carne morta
che vuole vivere
che vuole ancora

La febbre del sangue
è un lusso pericoloso
è una richiesta inoppugnabile

Fissi gli occhi
sul muro invalicabile
due chiodi conficcati
nel vuoto insondabile
del mio cranio

La visione dell’appeso
la visione ribaltata
naufragata

 

Atto V
Sera blu (Edward Hopper, 1914)

Avresti dovuto affogare il figlio
prima d’impugnare
il nodo scorsoio della corda
castrarlo
prima d’immaginare
la falce d’acciaio della lametta

Avresti dovuto riordinare
i referti disfatti
cauterizzare la degenerazione
gli smembramenti della carne
gli smembramenti

 

Atto VI
Occhio (Maurits Cornelis Escher, 1946)

E se ho combattuto
è stato solo per non soccombere
solo per sopravvivere
proprio come le bestie
come le bestie
e sulle mie pulsioni
sulle mie estensioni
non ho mai avuto nessun controllo
nessuno

Schiavo
prigioniero delle mie debolezze
ho ingaggiato una lotta impari
contro la mia natura
la nostra maledetta natura

 

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