CONFINE DONNA – XXIII e ULTIMA PUNTATA

Qual è stato il confine che ti ha segnata di più, cambiandoti, quello dal quale hai sentito di non poter più fare ritorno?

Quando mi sono scoperta priva di una comunicazione autentica con la società nuova. Per uno che scrive diventa difficile con un vocabolario scarso trasmettere agli altri testimonianze complesse. Improvvisamente mi sono sentita denudata, disarmata. Dovevo lavorare, qualsiasi lavoro, e naturalmente questo ha modificato il mio stato. Poche donne migranti hanno la possibilità di riprendere gli studi, o di vedersi riconoscere il diploma di laurea, o di perfezionare la conoscenza della lingua seconda. Il tempo passa e nessuna delle esperienze che stai accumulando ti aiuta a ritrovare la persona che eri una volta. In ogni modo non mi sono mai pentita. Farei di nuovo le stesse scelte. Tempo fa avevo scritto: “La mia è una storia di emigrazione intrapresa per amore della libertà, dei cambiamenti intesi come un’opportunità di crescita, per la quale sono stata costretta a calpestare strada facendo il mio passato. Altrimenti non avrei mai potuto conoscere donne di altri paesi, storie che amo, e che non mi annoieranno mai nel loro tragico o fortunato epilogo”.

Da  Ciao mamma, un saluto da Bolzano (Terra d’ulivi 2017)

Ciao mamma, un saluto da Bolzano

Ciao mamma, un saluto da Bolzano.
Sento il bisogno di dirti che mi manchi.
Avrei potuto essere anch’io di Kobani, essere chiamata Narin.
E se mi trovassi sotto un mucchio
di sassi, oppure violentata in una casa abbandonata,
desiderosa di avere addosso
un grembo di fiore tra le crepe?
Se fossi Narin, e se fossi viva, avrei potuto scriverti
per spiegarti dove mi trovo.
È facile se segui le tracce di altri spettri,
ti accorgi del muro con sopra il mio nome all’inchiostro rosso.
Il muro con le tre finestre, sul lato est di Kobani.
Ti avrei indicato
la porta verde bucata dal cecchino. Se fossi Narin.
Altrimenti, mi troveresti un po’ dappertutto. La testa appoggiata
sul tronco di un albero.
La mano, quella con quale ti scrivo, sopra il fucile.
L’occhio destro che guarda le malve,
l’altro che segue il merlo sopra il tetto.
Ti amo più di quanto pensassi.
Hai letto della morte del ragazzo Azad,
che cantò l’ultimo canzone per la sua madre?

Tutto sommato, io sto bene. Ogni mattina bevo un macchiato
e leggo i giornali. Da lì osservo a malapena il mondo
come sanguina, e le ali dei corvi che spediscono
i messaggi dei combattenti come polline per il futuro.

Gentiana Minga, scrittrice e giornalista, è nata il 12 aprile 1971 nella città di Durazzo (Albania). Laureata in Letteratura e Lingua Albanese presso la Facoltà di Storia e Filologia dell’Università di Tirana, è stata insegnante di lingua e letteratura albanese e per diversi anni bibliotecaria presso la Biblioteca Pubblica di Durazzo. Ha collaborato come corrispondente per la testata albanese “Koha Jone”. Tra le sue pubblicazioni: la raccolta di racconti e novelle Autopsia e shkatërrimit / Autopsia del disastro, (Europa, 1993); la silloge Zonja e Shkodrës / La signora di Scutari, (Florimont, 2003); l’antologia poetica Ciao mamma, un saluto da Bolzano (Terra d’Ulivi, 2017). I suoi testi compianao in diverse antologie, tra cui: Sotto cielo di Lampedusa II (Edizioni Rayuela); Muovimenti – segnali da un mondo viandante (Terra d’Ulivi); Donne combattive e solitarie (reportage); Donne d’Albania- tra migrazione, tradizione e modernità”, (Com Nuovi Tempi); Matrilineare, Madri e figlie nella poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi (La vita felice); Poesia Urgente per Giulio Regeni (Edizione Rayuela, 2019). Ha tradotto e pubblicato testi di diversi autori, tra cui Pier Paolo Pasolini, Corrado Alvaro, Luis Sepulvelda, Norbert K. Caser.

 

La rubrica “Confine donna: poesie e storie d’emigrazione” è ideata e curata da Silvia Rosa

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