Dalla premessa di Serse Cardellini

L’opera di Luca Artioli è un pellegrinaggio poetico attraverso la vita di un uomo. Quest’uomo è Primo Levi. Il selciato di una simile strada è fatto di vetri rotti e va percorso a piedi nudi. Impossibile non ferirsi. Chi tenta di raccogliere tutti i vetri per ricomporli è un filosofo. Chi vi cammina a lato e li osserva è uno storico. Mentre chi vi passa sopra, consapevole di non potersi ferire mai abbastanza per arrivare fino in fondo al dolore, questi è un poeta. Coloro che nella propria incommensurabile sofferenza hanno detto «io là (ad Auschwitz) c’ero», hanno anche ammesso di non riuscire a comprendere. Perché, dunque, dovrebbe riuscirvi chi là non è mai stato? Né filosofo, né storico, né poeta possono spiegare l’inspiegabile. Ma qui non si tratta solo di comprendere, piuttosto di non dimenticare. Così il filosofo, lo storico e il poeta non possono tacere. Luca Artioli è tra coloro che non vogliono dimenticare i ricordi di chi là c’era. Ma di fronte a ciò che per la sua disumanità sfugge alla comprensione umana, vi sarà sempre qualcosa che non si può o non si sa dire. Il lato oscuro del centauro è proprio ciò che Primo Levi non ha scritto. Né mai alcuna mano scriverà.

 

Dalla nota dell’autore

[…] Ho deciso di scrivere Il lato oscuro del centauro, lasciando da parte la presunzione di dover assolvere con la sua realizzazione a qualche scopo specifico, se non quello di restituire ai lettori, attraverso l’immaginifico mezzo espressivo della poesia tanto cara allo stesso Levi, il profilo di un uomo vero e dalla personalità complessa. Una personalità che ha saputo animare una vita biforme, centaurica appunto, fatta di luci e ombre, così come di parole e silenzi, ma la cui storia è ancora oggi in grado di assurgere a liquido di contrasto nei confronti del nostro odioso disinteresse verso il prossimo. Un veleno che, come quello di Auschwitz, ci impone di perpetuare la via della memoria alla ricerca di un pensiero che si traduca in azione, di un antidoto efficace, insomma, che un giorno possa salvarci.

 

Da Il lato oscuro del centauro: 100 anni di Primo Levi (La Vita Felice, 2019)

 

I. Torino, 31 luglio 19191

Tu non lo potevi sapere,
dallo schiuso entroterra
si è fatto forma il destino,
il tuo, prima nel calco avito
della madre e poi nel grido.

La casa di Corso Re Umberto,
i muri come turriti, di guscio
e tutti quei ritorni che vedrai
saranno per te il filo dei passi,
lo stare dritto, senza rete sotto.

Nei tuoi chiaroscuri, il verbo
nonché la logica della chimica
diverranno nepente e porranno
un riparo, là dove più l’umano
smetterà di vedere se stesso.

Così, in ogni anno a seguire
rimarrà in te, nella costanza,
quella necessitudine di portare
via dagli occhi delle persone
i dubbi e la fermezza nel bene.

Nulla della natura che ci abita
infatti, procede senza scoprire
in noi il proprio opposto ed è
quanto preme e quanto saprai
per certo, finché vita sarà stata.

1. È la data di nascita di Primo Levi. L’autore viene partorito presso la sua casa torinese di Corso Re Umberto n. 75, in cui abiterà praticamente tutta la vita.

*

XIII. 17451713

Ormai è stato, dopo la fila
anime finché anime erano
ancora, sebbene già curve
adesso certe e numerate,
con la loro mappa cilestrina.

Il polso appena ha vacillato
giusto l’attimo della punta,
l’idea del nome retrocesso
che più non serve e il pane,
dato soltanto per matricola.

Avverti sulle spalle l’energia
greve dello spossessamento,
come se la terra avesse fatto
la propria offerta, nel ritorno
e il suo magnete fosse vicino.

È qui, tra primi annegamenti
che inizia alla resa lo sguardo,
il tuo, a me forse mai ceduto
e in un luogo altro avrà casa
sostando lì (ora), penetrato.

13. È il numero di matricola con cui viene tatuato Primo Levi in lager. Essere “marchiati” simboleggia il primo atto di un rito d’iniziazione che lo porta a essere un vero e proprio häftling, un deportato. Nel campo di concentramento, infatti, il numero di matricola sostituisce il nome di ogni persona ed è soltanto grazie alla sua esibizione che si può ricevere pane e zuppa ogni giorno.

*

XXIX. La gabbia e l’arena29

Ormai l’hai capito che più non si può
dividere, che il Giudizio Universale è
cosa altra e mai servirebbe quella sua
idea da bene o male, quel taglio netto
che tranquillizza, che ti dice dove stare.

Chi non si vuole morto, vuole morto te
e non soltanto intorno preme il nemico,
ma ti aspetta anche dentro, guardingo
si prende della mano la parte che aiuta,
priva la parola del suo essere conforto.

Qui si respira la gabbia e l’arena, qui tu
hai occhi costretti alla dura ginnastica
del non vedere mai per chiamarsi fuori
qui il mondo si atomizza, prende forma
e aderenza al poco corpo che ti rimane.

Perché è proprio questo quanto si vuole
che tu sia solo nel pensarti, con i sorrisi
sdentati dei più vecchi nella loro pania,
pronti nel cederne il peso, dell’offesa
subita per catena nella sua precedenza.

È così che l’uomo di sé mostra la natura:
animale gregario per filamento genetico
schiaccia teste seguendo un predisposto
istinto al dominio sugli altri, su chi resta
indietro, su chi si sottrae all’ingranaggio.

29. Primo Levi tratta spesso il concetto di “zona grigia”, un luogo non-luogo abitato da tutte quelle persone oppresse che, all’interno del campo di concentramento, scendono a compromessi con il potere o rimangono indifferenti alla violenza dei nazisti sugli altri prigionieri. In lager la distinzione fra “Bene e Male” sparisce, al suo posto si insinua un nemico indefinibile che spesso risulta essere non soltanto intorno, ma anche dentro ogni uomo. Non c’è infatti solidarietà tra gli oppressi, gli ultimi arrivati nel campo sono spesso vittime degli stessi internati più anziani, che non perdono l’occasione di riversare su di loro il peso dell’offesa a suo tempo subita.

*

XXXVIII. Sistema periodico38

Ti hanno prima della lode scritto
“razza ebraica” in un bel Bodoni
perché fosse un ricordo ancipite
di mezza gloria e mezzo scherno
di tanta grazia e tanta condanna.

Che si sappia pure e così è stato,
quando l’ora è arrivata del lager
e ha avuto sopravvento il tramite
sul fine, solo la chimica è servita
nel dovere urgente della gomma.

Poi gli altri calendari sono andati
sui binari della corsa, con ardore
con quel tuo concederti munifico
alle formule, al sistema periodico
nel dividere, pesare e distinguere.

E quanta meraviglia hai scoperto
nel dragare il ventre del mistero,
capire del mondo la sua materia
dentro molecole e doppie eliche,
trovando la vita dov’è impurezza.

Proprio lì, che anche nel travaso
(dalla sostanza alla parola) serve
quell’essere un poco alchimista,
dando misura e nuovo alfabeto
alla lingua, al suo codice umano.

38. La chimica, la prima grande passione, coglie l’autore fin dall’adolescenza. Levi immagina che questa possa permettergli di «dragare il ventre del mistero», dandogli accesso a una comprensione autentica e completa della realtà che lo circonda. Durante gli anni del liceo, va crescendo in lui un pensiero indipendente proprio grazie allo studio della materia. Un pensiero che vuole smarcarsi dall’omologazione imposta dal fascismo per trovare applicazione in ogni sfera dell’agire umano. Osservando il comportamento delle sostanze naturali, Levi comprende che il vero motore della vita e del cambiamento è l’impurezza. Sul piano esistenziale questa persuasione lo porta a sviluppare il gusto per tutto ciò che è anomalo, singolare  imperfetto. Nel giugno del 1941, nonostante imperversino le leggi razziali, Primo Levi consegue la laurea in chimica con il voto di 110 e lode. Di fianco al nome, sul documento, viene stampata la dicitura “di razza ebraica”. Nei mesi difficilissimi del lager, il titolo di studio gli salva la vita, permettendogli di trascorrere gli ultimi mesi di prigionia nel laboratorio della Buna, la fabbrica chimica intorno a cui era nato il campo di Monowitz-Auschwitz. Finita la guerra, Levi troverà lavoro prima alla Duco di Avigliana (To), poi tenterà la via della libera professione insieme a un amico e infine, nel 1948, entrerà alla Siva, fabbrica di vernici e resine, dove rimarrà fino al 1977, ricoprendo ruoli dirigenziali. Anche nella scrittura la chimica farà sentire il proprio influsso, regalando all’autore un lessico più ricco e sviluppando in lui l’abitudine di scrivere in maniera compatta e asciutta.

*

L. Dieci e venti50

Il piede dentro la mattina d’aprile
si tiene stretto alla sua abitudine:
la tua giacca aperta, in primavera
è l’ingresso lieve a tutta la brezza
che nei pensieri dimora e bruisce.

Saluti qualcuno con aria distratta,
la traiettoria quotidiana ha scarpe
su marciapiedi precisi e ogni cosa
deve combaciare secondo origine,
proprio come te la sei immaginata.

Sul filo lungo del ritorno, imbuchi
poi nella cassetta nuova speranza
programmi e attese da farne anni,
quanto fosse viva ancora la mente
e ferace, nella sua inquieta trama.

Ma lo specchio a casa ti attende,
dopo Iolanda, i giornali e i sorrisi
in manica di camicia delle dieci,
l’insistenza del chiodo ricomincia
a dilagare dietro ai tuoi occhiali.

«Hanno bussato, sì hanno bussato»
dici al tuo riflesso, dici vedendomi
a te ricongiunto. E così è successo,
appena sulla porta è stata la mano
i visi che tanto cercavi son tornati.

 

Adesso sei qui,
disteso e liberato su un pavimento
con il mondo del silenzio
che ti ha preso in consegna
per cupio dissolvi o vertigine.
Adesso sei qui, tornato al guscio
e reso alla tenebra
con l’ora certa nel sigillo
dove il resto è chiusa di sipario e tu,
tu soltanto dei sommersi la non-parola.

50. È l’ora in cui, l’11 aprile 1987, Primo Levi muore, cadendo dalla tromba delle scale del condominio in cui ha sempre vissuto fin  all’infanzia, in Corso Re Umberto, al civico 75. Le ipotesi più accreditate parlano di suicidio in conseguenza di una forte depressione, anche se alcuni sostengono ancora che possa essersi trattato semplicemente di un incidente causato dalle vertigini, di cui l’autore soffriva. La lettera accennata è quella che lo scrittore imbuca (forse) proprio il giorno della sua morte al collega Ferdinando Camon, una missiva ricca di progetti, nonostante Levi affermi in più occasioni la difficoltà di scrivere. Il nome di Iolanda, invece, appartiene alla portinaia del palazzo che ogni mattina, verso le dieci, porta la posta e i giornali a Levi. È lei l’ultima a vederlo vivo, perché la moglie dello scrittore, Lucia Morpurgo, è andata a fare la spesa.

 

Luca Artioli nasce a Mantova nel 1976, dove tuttora vive. Dal 2001 scrive su riviste on-line e siti a carattere letterario, curando rubriche dedicate a scrittori affermati ed esordienti. Dirige sul proprio sito la pagina de “Il Divano Muccato”, spazio riservato a recensioni e interviste con poeti e romanzieri. È socio fondatore, nonché membro del consiglio direttivo, dell’Associazione Culturale “Movimento dal Sottosuolo”, gruppo per l’unione delle arti, che agisce tra Mantova e Brescia. Presente in varie antologie sia di prosa che di poesia, ha all’attivo anche pubblicazioni personali: Fragili Apparenze (TCM, Mantova 2005), Suture. La poesia come resilienza (Ed. Fara, marzo 2011), La casa a cui vieni (Ed. L’Arcolaio Editore, Forlì 2012), L’inventario dell’uomo solo (Ed. L’Arca Felice, Salerno 2012) e La crudeltà dei deboli (Ed. La Vita Felice, Milano 2017) in ambito poetico. Come ladri di vento (Ed. Albatros – Il Filo, nella collana non a pagamento “L’ordito e la trama”, Roma 2012) per la narrativa. Il suo sito internet ufficiale è: http://www.lucaartioli.it

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