“Una colonna sonora attenta a cogliere e a trascrivere la condizione contemporanea, condizione che all’aggettivo ‘umana’ non può non applicare, gogna permanente, un prefisso: dis-umana, sub-umana, trans-umana, con buona dose di probabilità non oltre-umana. Non è facile dare misura e stile alla rabbia per l’indegnità – la privazione di dignità – inflitta e auto-inflitta quotidianamente. Questo obiettivo è raggiunto da Francesca Del Moro con Gli obbedienti, raccolta compatta, rimata e ritmata ad arte e con tutti i sentimenti. Con tutti i sentimenti, sì, perché c’è la sera, e la sera chi rimbocca le coperte innaffia mestamente le speranze, addossandosi colpe, nella speranza testarda di toglierle ai figli. Alla luce della sera di una giornata a ciclo continuo, iniziata nell’alba dal sapore metallico di una stazione per pendolari, proseguita a testa china nell’open space o con il viso fugacemente sottratto al grigio e rivolto al sole in una pausa quasi rubata, alla luce di questa sera, dunque, si delinea chiaro e insopprimibile l’intento della parola, gesto meditato, rivolta, testimonianza, strappo, critica, memoria.” (Dalla postfazione di Anna Maria Curci)

 

Insetti da schiacciare, soldatini dalle armi spuntate, pecore, immaginette bidimensionali immerse nel grigiore mesto della ripetitività e del non senso, formicuzze pronte a trasformarsi in iene per difendere quello scampolo asfittico abitato stretto da mattina a sera, una sorta di prigione senza cielo né punti di fuga all’orizzonte, solo schermi luminosi artificiali in cui vomitare rabbia e frustrazioni, individualismo e solitudine: è quel che resta di uomini e donne costretti a muoversi in uno scenario senza margini, che dilaga e sfora oltre il quotidiano e invade ogni spazio e ogni rimasuglio di umanità. Il lavoro raccontato nelle poesie di Francesca Del Moro è la crudele divinità che sovrasta le vite minuscole degli obbedienti, le condanna a girare intorno a se stesse come cavie cieche, pezzi di ricambio  – che in un attimo si possono sostituite – di un ingranaggio che risponde a logiche disumane e distopiche. E leggendo questi versi, asciutti e precisi, a volte taglienti da fare male, si ha proprio la sensazione di trovarsi in un mondo in cui tutte le utopie siano andate perdute, frantumate in mille parole senza più presa sulla realtà e senza più futuro. Eppure la poesia, nonostante tutto, si cela più vivida che mai nel risvolto segreto di queste esistenze, in un gesto d’affetto, in uno sguardo ancora capace di stupore e di empatia, e consegna insieme al dolore di un contemporaneo privato di progettualità, anche la speranza testarda in un domani che covi ancora in sé  la forza di ribellarsi e di alzare la testa. Per pensare a una via d’uscita praticabile e tornare a credere in qualcosa che valga più di una piatta sopravvivenza a tempo determinato. (Silvia Rosa)

da Gli Obbedienti (Cicorivolta Edizioni, 2016)

II
Alle sei del mattino

Il suono rompe
il sogno, il sonno
e schiude l’occhio.
Cerca nel buio
il primo passo
il piede nudo.
Nella mattina scura
il respiro è spurgo
di rigovernatura.

XV
Questo schermo è grande grande
metti uno sfondo del posto dove vorresti stare
che so dei voli di gabbiano sopra un mare cristallino
mercati vintage a Berlino monti di un bianco luccicante
o il faccione sorridente del tuo bambino
che ritroverai la sera, spossato dopo tante ore,
o – qui tutto è permesso – la foto sexy del tuo amore.

XVII
Ha più di mille dipendenti
contando per comodità
le partite IVA a orario fisso in sede
a cui da casa dà ordini via WhatsApp
non li vede ma ha qualche paia
d’occhi che è come fossero i suoi
guarda film muti e poi sospira
e si lamenta che la gente non sorride
non ha ideali non sogna
spesso fa la voce grossa
e minaccia e licenzia
senza pensarci due volte
ha un passato da sindacalista
e poi nella cosiddetta estrema sinistra
crede nei diritti e nelle libertà
la sua azienda sostiene associazioni
umanitarie ed è ecologica e animalista
scriveranno un articolo chiamandolo
l’imprenditore comunista
a microfoni spenti dopo l’intervista
lancia un urlo alla sala ammutolita
e il giornalista chiede
se non sia in contraddizione
con la sua storia e le sue convinzioni
non rispettare i diritti e trattare così le persone
e lui fa un largo gesto della mano
in direzione delle schiene curve e dice:
“Lei queste le chiamerebbe persone?”

XXXV
Soldatini d’argilla
fibrillano in piccole piccole
battaglie quotidiane
senza esclusione di colpi,
da quelli sotto la cintura
a quelli dati alle spalle.
Si sta alla scrivania come
in trincea, ma si spara
a chi sta accanto, perché
si prende meglio la mira
e poi si fa prima.
È il lavoro, bellezza,
non c’è nulla di personale,
questione di sopravvivenza.

XXXVIII
Urlò
lui così mite
così abituato a subire
d’un tratto urlò
non con l’apparato fonatorio
ma con tutto il corpo
assottigliato nello sforzo.
I pori della pelle
come bocche, l’urlo
si propagò ovunque,
rimbalzò sui muri,
sulle scrivanie, fece tremare
i vetri delle finestre
e gli schermi fece cadere
le penne e le matite come
un terremoto volare
i fogli come una raffica di vento.
È una crisi, pensarono gli altri
ammutoliti. Loro risposero
civilmente e per iscritto
il giorno dopo, lui lesse
il messaggio distrattamente
mentre svuotava cassetti
sotto dieci paia d’occhi
e staccava le foto dal computer,
per ultima quella in cui
seppur tutti sorrisi
moglie e figli lo guardavano
incattiviti.

LXXII
Hai paura. I volti
degli altri sono chiusi. Gli occhi
sono vuoti o sprezzanti. Nei muri
respira una minaccia. Non sai se
umiliazione violenza disgrazia
o la perpetuità di questa paura.
Ti cadono lacrime e per asciugarle
vorresti una qualunque carezza.
Ma non c’è nessuno qui, per te.
Ovunque è un uguale dolore
che non affratella.

LXXXIX
Prima gli occhi: il vasto bianco,
poi le orecchie: un ronzio intermittente,
di seguito le labbra: tremito perpetuo.
Scorrono sotto le palpebre i fantasmi,
sfugge un ricordo come un ultimo respiro,
increspa la bocca in un beato sorriso.
Poi lo smungersi del viso, la paralisi
che attraversa gli arti, l’allisciarsi
del tronco nella struttura tubolare,
il trasparire delle arterie, il formarsi
dell’involucro bozzolo, l’inserimento,
lo stare, il funzionare.

Francesca Del Moro è scrittrice, traduttrice, editor, performer e organizzatrice di eventi legati alla poesia. È nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. È laureata in lingue e dottore di ricerca in Scienza della Traduzione. Ha pubblicato le raccolte di poesia Fuori Tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta, 2013) e Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014). Nel 2014 LaRecherche.it in collaborazione con la rubrica Poesia Condivisa nel portale Poesia 2.0 le ha dedicato l’e-book antologico Interni, notte. Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa ed è autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire, pubblicata da Le Cáriti nel 2010. Ha contribuito come poeta, traduttrice e performer ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), tutte curate da A. M. Soldini. Propone performance di musica e poesia insieme alle Memorie dal SottoSuono, con cui ha inciso due brani inclusi nelle compilation Leitmotiv 13 (2013) e Leitmotiv 14 (2014), prodotte da Fuzz Studio, e ha partecipato alla realizzazione del primo album omonimo, uscito nel marzo del 2016. Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda. Placebo 20 Years, edita da Sound and Vision. Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere. Cura la rubrica “Poemata. Versi Contemporanei” per la rivista ILLUSTRATI edita da Logos.

 

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