Fotografia di Dino Ignani

 

 

Nati negli anni Ottanta è un progetto a lungo termine che ha l’intento di riassumere e catalogare le esperienze poetiche individuali o collettive portate avanti da autori scriventi in italiano nati tra il 1980 e il 1989. Si tratta di poeti cresciuti letterariamente in ambiti e contesti diversi e dunque legati spesso a modi di intendere il discorso in versi del tutto differenti. Per segnalare i libri dei poeti nati negli Ottanta scrivete sul form di contatto.

 

Franca Mancinelli (Fano, 1981) è autrice dei libri di poesia Mala kruna (Manni, 2007 – premio opera prima L’Aquila e Giuseppe Giusti), Pasta madre (con una nota di Milo De Angelis, Nino Aragno, 2013 – premio Alpi Apuane, Carducci, Ceppo-giovani), Libretto di transito (Amos edizioni, 2018), uscito nello stesso anno con traduzione inglese di John Taylor, con il titolo The Little Book of Passage, presso The Bitter Oleander Press (Fayetteville, New York). Una riedizione dei suoi due primi libri è raccolta in A un’ora di sonno da qui (Italic Pequod, 2018). Suoi testi sono compresi in diverse antologie tra cui Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini (Einaudi, 2012) e, con introduzione di Antonella Anedda, nel Tredicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2017). Collabora come critica con Poesia, Nuovi argomenti online, e con altre riviste e periodici letterari. Fa parte della redazione della rivista «Smerilliana», di «Argo – annuario di poesia» e del blog “Interno poesia”. Suoi testi sono tradotti in spagnolo (Italia poesía: presente, Huerga & Fierro), francese, arabo, croato, sloveno. Fa parte della giuria del “Premio Pordenonelegge Poesia. I poeti di vent’anni”. Ha partecipato ad alcuni progetti internazionali, tra cui Refest, images and words on refugee routes e, di recente, a Chair Poet in Residence (Calcutta).

 

 

 

Poesie tratte da Mala kruna (Manni, 2007)

 

all’orizzonte un mare diverso
fermava il sangue sotto le unghie;
madre nera nell’isola
ti venne a fianco e ti disse del vento,
un cattivo tempo che non faceva
partire le barche;
poi fissò un punto sul muro
lungo la strada iniziava una festa

mala kruna, disse
piccola corona di spine.

 

 

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e la ragazza arco
appoggia un piede in aria e congiunge
costellazioni di non generati
al grido che ha rotto ora le acque,
appesa la pelle a un ramo cattura
il vento, è una busta della spesa
di desideri altrui
svaniti in uno sguardo

nel treno del mio sangue
salite

 

 

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Poesie tratte da Pasta madre (Nino Aragno Editore, 2013)

 

ridono anche senza figli
selvatici come alberi che danno
frutti agli uccelli, con gli occhi
umidi – buchi nella terra:
abbiamo già cresciuto molti semi
la notte guardando
le vene illuminate della valle.

 

 

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nell’ora che fa buone le bestie
ci inchinavamo muti.
La luce scopriva
fessure, movimenti
veloci – non potevamo
essere riassorbiti.

 

 

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Poesie tratte da Libretto di transito (Amos, 2018)

 

A volte un breve annuncio ricorda la linea gialla, a volte è soltanto un rumore che si avvicina. La fenditura che si apre dev’essere arginata subito con le mani che si aggrappano a qualcosa, gli occhi chiusi. Ci si stringe alla panca, agli oggetti che si hanno con sé, fino a che il treno trascorre al nostro fianco. Con il tremore di qualcosa di enorme, per cui dobbiamo ancora aspettare.

 

 

***

 

 

La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso si perde, crescono erbe dure dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso. Ma non riesco a zapparle via, non riesco a riparare la falda.

 

 

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Testi tratti da A un’ora di sonno da qui (Italic Pequod, 2018, riedizione ampliata e rielaborata di opere edite precedentemente)

 

 

Tratto dalla sezione Mala Kruna (versione rivista)

non è questa l’ora del treno, resta
apri gli occhi all’ombra ondulata d’oro
i rami del glicine, le persiane

e ora chiudili di nuovo
è una ferita accorgersi che siamo
due dita di una stessa mano

siamo un ponte sull’acqua e il suo riflesso
cerchio intero di una falce di luna.

 

 

***

 

 

Tratto dalla sezione Un verso è una vasca e altri appunti sulla poesia (estate 2007)

Le uova ci sono e l’oca le cova. Forse è passato un mese, forse tre. Un vecchio che viene a potare la siepe dice che il tempo della cova è terminato, che là sotto, se c’è qualcosa, è tutto morto, e che se non si tolgono le uova l’oca continuerà ad avvolgerle nel ventre, fino a perdere le forze e ad ammalarsi. Il vecchio allora si china sul nido, prende le uova una a una, le avvicina all’orecchio e le scuote. Quelle che fanno un rumore sordo le spacca contro una pietra. Sulle zolle si apre un liquido rosso e marrone, gelatinoso e maleodorante. La maggior parte delle uova viene aperta, poche vengono rimesse nel nido. Assistiamo a questo rito consapevoli che una minima imperizia decide la vita.
Anche nello scrivere c’è un tempo oltre il quale ogni più premurosa costanza e dedizione non valgono a nulla: da quel testo non nascerà una poesia. Un lettore attento e con esperienza può aiutarci a riconoscere quale testo può avere ancora speranze. Forse con il tempo impareremo a distinguere da soli il suono della fissità e quello da cui può nascere la vita. Ma facilmente chi ha fatto le uova è portato ad aspettare oltre ogni limite, a riversare nella possibilità tutto se stesso. Certe cose invece non dipendono neanche del tutto da noi. A volte bisogna semplicemente alzarsi dal foglio, abbandonare il nido, e continuare a muovere passi nell’erba.

 

 

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Tratto dalla sezione Fuori dal fuoco (inediti da Pasta madre)

con passi che vorrebbero piantare
semi in una cadenza
vado a rendere alle foglie
l’albero che hanno perso,
alle piume cadute l’animale.
Poi incrocio le braccia
e il cuore torna in gabbia.

 

 

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Tratto dalla sezione Un letto di sassi (Agosto 2012)

Dormiamo nel sangue della partenza. Dormiamo a un giorno di addio. Ma di nuovo qualcosa mi sveglia per prima e ti ritrovo affondato in te stesso, in un pozzo che non mi contiene. Così tu cadi davvero nel sonno e continui a capofitto a precipitare, mentre io ci scivolo lentamente, dopo essermi aggrappata e a lungo assicurata alla tua banchina. Mi allontano per un breve tratto, senza perdere alle spalle l’arco disteso dell’orizzonte. Respira. Sono le onde del mare che entrano ed escono da casa tua, gli ospiti dell’estate che accogli nella stanza accanto, nei letti che restano sempre: la casa è più grande di te, è per una famiglia che si compone e scompone, tra richiami e gridi, voli e ritorni improvvisi. Nell’inverno e per lunghi momenti deserta, poi, nella corrente della sera, d’improvviso affollata da una colonia di gabbiani. L’uno accanto all’altro cerchiano un’isola, un luogo prescelto nella rovina.
Resto ad ascoltare il mare nel tuo respiro e aspetto che la corrente riaffiori, e sia anche per te la chiara distesa della mattina. Tolgo spine dal corpo scrivendo ai bordi del letto, brevi frasi che bruciano subito. In viaggio ho visto campi di stoppie annerirsi a un margine di fuoco.
Se ti sveglia un sottile crepitare di fiamme sono io che lentamente avanzo. Brucio stecche appuntite, quello che resta di una mietitura. Ma tu non ascolti. Di questo nero che si avvicina senti forse soltanto un voltare di pagine. Il letto è pieno di sangue e tu dormi. Dormi nel sangue mio.

Tutto il giorno non parlo. Se parlo si deforma il viso. La bocca, una piega spaventosa. Cerco di camuffarla ma lo sento: ho già i tratti tumefatti. Tu nascondi nel tenero delle labbra, avvolgi di carezze. La partenza. Devo guardare i tuoi occhi chiusi.
Si sta accorciando il respiro. Stai risalendo dal pozzo. Sei qui. Mi ritrovi voltata che segno la paura e le belve sulla parete della nostra caverna. E subito armato ti tendi per liberare il grido. Un grido che trapassa il soffitto, che fa crollare il cielo sulla terra. E piovono punte di freccia, grandi gocce di pioggia.

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