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L’intervista, pubblicata in forma completa, con i testi in originale e in traduzione, nell’Annuario di Poesia 2015 di Argo.
 

In una delle tue poesie immagini una seconda vita, una sorta di seconda possibilità dopo la vita già vissuta, e dici, usando la prima persona plurale, “ne abbiamo bisogno”. A chi ti riferisci? Agli iracheni?

In un primo momento pensavo a noi iracheni. Noi iracheni abbiamo bisogno di una seconda vita perché questa eredità di guerre continue, che sembrano scaturire l’una dall’altra, ci ha strappato la vita e la vita dei nostri cari o, nel migliore dei casi, la possibilità di condurre una vita normale. Ma al colmo di questo senso di ingiustizia, dell’impressione per cui, se sei iracheno, non hai vissuto la tua vita, mi sono detta: «Forse tutti avrebbero bisogno di una seconda vita, non solo gli iracheni». E così ho scritto la poesia.

Qual è il rapporto tra il tuo Paese e la tua poesia, o, più precisamente, qual è il rapporto tra la tua poetica e l’attualità drammatica che sta vivendo l’Iraq?

Per la poesia, ho lasciato il mio Paese. Per il mio Paese, ricorro alla poesia. Non conosco altro modo di affrontare un evento tragico, se non quello di farne, attraverso la poesia, un evento estetico di uguale intensità e di senso contrario. Sono perfettamente cosciente che la poesia non è un medicinale con cui curare le ferite, ma so anche che è una radiografia, con cui le ferite posso vederle e capirle. In questa nostra epoca, testimone di una recrudescenza di violenze senza precedenti, è naturale che gli esseri umani si sentano in esilio e cerchino rifugio nell’arte, anche se l’arte è inutile o forse proprio perché è inutile. La grandezza dell’arte è la sua importanza nella sua inutilità.

Fatte queste premesse, come – o forse, perché – hai scritto la poesia La tomba di mia nonna?

Un anno fa, quando ho visto i terroristi che si attribuiscono il nome di Stato islamico minacciare di distruzione i cimiteri dell’Iraq settentrionale, per il solo fatto che contengono simboli come la croce cristiana, ho ripensato a mia nonna, sepolta lì. E mi ha invaso un dolore più grande di quello che ho provato il giorno della sua scomparsa, forse perché era un dolore mescolato a rabbia. Mia nonna viveva con noi a Baghdad e dormiva accanto a me sul tetto di casa. È lei che mi raccontava le favole prima di dormire. Le storie popolari che conosceva hanno avuto una grande influenza su di me, come poetessa. La mia prima esperienza con la scrittura risale infatti a quand’ero bambina e trascrivevo sul quaderno, alla mia maniera, tutte quelle storie. Mia nonna aveva una particolare saggezza e un grande amore per i proverbi, a cui ricorreva per commentare i diversi avvenimenti della vita. Riesco a ricordarla solo così: con le trecce e un lungo abito nero. Era il segno di lutto per sua figlia maggiore (mia zia), un lutto che, come aveva deciso, l’ha accompagnata fino alla tomba. Il dolore era un aspetto fondamentale della personalità di mia nonna, forse perché è vissuta nel periodo delle guerre mondiali, la prima e la seconda, e ha assistito a tanti fatti crudeli. Ma forse non si è mai immaginata, in vita sua, che la crudeltà nel mondo sarebbe arrivata al punto di distruggere la sua tomba.

Come vedi il futuro del tuo Paese?

Onestamente non lo so. Non ti nascondo che ho brutti presentimenti. Ogni volta ci diciamo: può solo andare meglio perché abbiamo toccato il fondo, non può succedere niente di peggio. E poi una cosa ancora peggiore ci sorprende. Una delle divisioni più dolorose all’interno del mio Paese è data dal fatto che una parte degli iracheni, quando hanno visto i resti archeologici della loro civiltà distrutti dallo “Stato islamico”, si sono detti: «meglio cose che persone». Dopo aver assistito a così tante morti umane, non riescono più a rattristarsi per le statue, anche se rappresentano il loro patrimonio e hanno migliaia di anni di vita.

Per il tuo ultimo libro hai scelto una casa editrice irachena, le edizioni Mesopotamia. Come vedi il futuro dell’arte nel tuo Paese?

La casa editrice Mesopotamia ha sede a Baghdad, in via Mutanabbi, per questo l’ho scelta per pubblicare il mio libro, Notti irachene, anche se è un editore relativamente giovane. Via Mutanabbi è una delle strade più vivaci di Baghdad dal punto di vista culturale. Specialmente il venerdì, quando ospita eventi artistici e letterari, dialoghi e incontri; al di là della rinomanza storica del suo mercato di libri vecchi e nuovi, che si vendono anche per terra, non soltanto sugli scaffali. Ai lati della strada ci sono i caffè in cui la gente si ritrova per intessere discussioni, oltre che per giocare a scacchi e a backgammon. L’arte è l’unica speranza che resta al mio Paese.

Traduzione dall’arabo di Elena Chiti
Da Notti irachene / Al-Layâlî al-‘irâqiyya
La forma del mondo
Se il mondo fosse piatto
come un tappeto volante
il dolore avrebbe un inizio e una fine.
Se il mondo fosse quadrato
ci nasconderemmo in un angolo
ogni volta che la guerra gioca a mosca cieca.
Se il mondo fosse rotondo
i nostri sogni non scenderebbero dalla ruota panoramica
e saremmo tutti uguali.
Una seconda vita
Dopo questa
abbiamo bisogno di una seconda vita
per attuare quanto imparato
nella prima.
Commettiamo errori su errori
abbiamo bisogno di una seconda vita
per dimenticare.
Canticchiamo a lungo aspettando gli assenti,
abbiamo bisogno di tutta la canzone.
Andiamo in guerra
e giochiamo ai soldatini,
abbiamo bisogno di una seconda vita
solo per l’amore.
Abbiamo bisogno di tempo
per scontare la pena in prigione
e uscire liberi
nella seconda vita.
Impariamo una lingua,
abbiamo bisogno di praticarla di più
nella seconda vita.
Scriviamo poesia e passiamo ad altro,
abbiamo bisogno di una seconda vita
per sapere cosa ne pensano i critici.
Corriamo
dappertutto,
abbiamo bisogno di una seconda vita
per fare le foto.
Il dolore ha bisogno di tempo
per cicatrizzarsi.
Abbiamo bisogno di una seconda vita
per imparare a vivere senza dolore.
La tomba di mia nonna
Quando è morta mia nonna
ho pensato: non può morire due volte.
Tutto in vita sua è accaduto una volta per sempre:
il letto sul tetto di casa,
il bene e il male contrapposti nelle favole,
la veste nera in lutto per la figlia “uccisa dal mal di testa”,
il rosario e il mormorio “rimetti a noi i nostri debiti”,
il vaso vuoto di epoca ottomana,
la sua treccia, ogni capello una storia:
prima furono i sumeri,
tracciarono i loro sogni su tavolette di argilla,
disegnarono palme e il dattero maturò prima del dolore,
disegnarono occhi per scacciare il male
dalla loro città.
Disegnarono cerchi e li pregarono:
goccia d’acqua
sole
luna
ruota che gira più veloce della Terra.
Supplicarono: “dei, non morite, non lasciateci soli”.
Sulla torre di Babele
la luce è esilio
confuso,
i segni
sono scampoli di canti di uccelli.
Passarono sul Tigri
molti altri re nudi
e navi.
Il fiume si riempì di
corone
elmi
libri
pesci morti,
e sull’Eufrate apparvero cadaveri-gigli.
Ogni istante un nuovo buco sulla pancia della nave.
Le nuvole sono cadute su di noi
guerra dopo guerra
hanno ghermito i nostri anni,
i nostri giardini pensili
e come cicogne se ne sono andate.
Ci siamo detti niente di peggio può avvenire.
E sono venuti i barbari
a Ninive, Madre delle due primavere.
Per mostrare che sono morti, più o meno,
hanno spezzato la tomba di mia nonna: la mia tavoletta di argilla,
hanno distrutto i tori alati,
con i vasti occhi
aperti
girasoli
per sempre volti
verso i brandelli dei nostri primi sogni.
Passo la mano sulla carta geografica,
come su una vecchia ferita.
Baghdad a Detroit
Il quattro luglio
sento qui a Detroit
l’eco delle esplosioni di Baghdad
pare siano fuochi d’artificio
Canto dopo canto
disperdo i miei uccelli
lontano dalle nubi di fumo
pare siano solo nuvole nel cielo
Una farfalla dalle rive del Tigri
atterra sulla mia mano
niente bombe oggi a spaventarla
pare sia il fiume Detroit
Entro in un rifugio
insieme ad altri nella calca
ne usciremo alla fine del raid
pare sia il tunnel per il Canada.
 
Dunya Mikhail è nata a Baghdad nel 1965. Irachena cristiana, è cresciuta parlando arabo e neo-aramaico. Si è laureata in Letteratura inglese all’Università di Baghdad, città in cui ha pubblicato le prime raccolte poetiche. Ha lasciato l’Iraq negli anni Novanta, quando ha scoperto che il regime di Saddam Hussein considerava le sue poesie “pericolose” e l’autrice una “nemica”. Statunitense dal 2007, continua a scrivere in arabo e a coltivare il legame con il suo Paese di origine. Di lei si può leggere in italiano La Guerra lavora duro (San Marco dei Giustiniani, Genova 2011; traduzioni dall’arabo di Elena Chiti). La sua ultima raccolta, Notti irachene, inedita in italiano, è stata pubblicata in Iraq dalle edizioni Mesopotamia.

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