Inauguriamo la rubrica Dispositivi, dedicata alla poesia-congegno. Proprio come un dispositivo, la poesia-congegno è composta in un certo modo per una determinata funzione e si serve di strumenti di varia natura multimediale e format contemporanei. Il primo articolo della rubrica è di Francesco Faccioli, studente al quarto anno del Liceo Classico “M. Minghetti” di Bologna, che ha analizzato un Poetry Slam ripreso e diffuso su Youtube. Le forme della poesia-congegno si orientano sulla base di dispositivi (pc, tablet, smartphone, ecc.) che danno accesso ai social media (Youtube, Instagram, Facebook, ecc.), grazie alle applicazioni (app), pertanto esse non rinviano più solo alla tradizione, all’uso della scrittura o all’oralità con le sue figure metriche e retoriche, ma a una nuova sfera della produzione e della ricezione estetica. (Valerio Cuccaroni)

 

Recentemente ho guardato e ascoltato su Youtube il Poetry Slam* del poesia festival La Punta della Lingua 2018 (qui il link alla prima manche). Il Poetry Slam è una forma di competizione poetica, nata negli Stati Uniti negli anni ’80 del secolo scorso, dove i concorrenti, in una forma declamatoria e popolare che ai più nostalgici ricorderà ombre di antichi aedi, sono chiamati a declamare i loro testi davanti al pubblico.

Questi certamina vengono spesso messi in relazione alla musica rap, con la quale condividono i natali geografici. Sulla base di alcuni testi degli slammer ospitati dal festival, cercheremo di esplicitare il debito che il poetry slam parrebbe avere con la musica di Eminem e Tupac, segnalando ora dove i due generi di distanzino, ora invece dove si avvicinino.

Il ritmo: da Guglielmo IX d’Aquitania a Eminem

Aspetto fondamentale della poesia, a partire dall’XI secolo, è il ritmo: è risaputo infatti che nel mondo classico – senza considerare il discusso metro saturnio – venivano adoperate forme metriche di genere quantitativo, e non qualitativo. Di contro sappiamo per certo che la lirica trobadorica, secondo la tradizione fondata da Guglielmo IX d’Aquitania, aveva le sue radici nell’opposizione tra sillaba tonica e sillaba atona. Sempre in quel periodo vennero costituendosi nuove forme metriche e le eventuali rime più o meno fisse: un esempio che ben sintetizzi ciò che ho detto è dato da una terzina dantesca, o da un sonetto, pur se di trecento anni successivi. In verità si potrebbe procedere per molti secoli prima di incontrare anche componimenti poetici – possiamo definirli tali? Non affrettiamoci – che mirino a una più libera versificazione, producendo quella che possiamo definire la dissoluzione, o distruzione, del verso, del ritmo e della rima così come erano comunemente conosciuti. È pacifico, credo, che tale dissoluzione sia avvenuta, per gradi, dalla fine del Settecento.
Confrontate ora una parte di poesia – antica e nota – appartenente alla categoria che così, tra noi, potremmo definire tradizionale:

Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
[…]

Si dovrebbe facilmente ravvisare il seguente schema metrico: abCabC, vale a dire settenari a rima replicata con endecasillabo nella terza rima (C). Canonico, direi: chi più di Petrarca puo’ assurgere a poeta della più pura lingua italiana?

Ora, invece, osserviamo una poesia come La Pioggia del Pineto – altro esempio canonico – appartenga ritmicamente e metricamente a un filone poetico che tenta di rinnovare alcune delle unità fondamentali della poesia (ritmo, verso, rima):

[…]
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura 35
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde 40
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino. 45
E il pino
[…]

Nell’ordine: settenario, senario, ternario, ottonario, ancora quattro senari, quindi quattro quinari, ancora un senario e infine un ternario. Si notino “solitaria-aria”; “verdura-dura”; “solitaria-varia”; “solitaria-aria”; “fronde-risponde”; “rade-rade”; “pianto-canto”; “cicale-australe”; “cinerino-pino”; e più alla lontana “cade-rade”; “dura/verdura/aria-impaura”. Ovviamente trascuriamo ulteriori rimandi all’interno dell’opera stessa, per alleggerire un poco il pedestre compito di analisi retorica, peraltro molto approssimativo. Trascuriamo anche i circa settecento anni che intercorrono tra i due stralci proposti: si sarebbe potuto confrontare un Pascoli dei Poemi Conviviali, oppure un Saba con il suo antinovecentismo. Limitiamoci a riconoscere, nel Petrarca, versificazione fissa e ordinata, come pure la rima e il ritmo; viceversa, nel Vate, versificazione libera, e di conseguenza ritmo assai più (se mi è permesso) vario, e una serie di figure di suono che pure non sono, o non suonano, all’ascolto, canoniche.
Ora compiamo un deciso passo avanti nel tempo.
Per i non addetti ai lavori, il rap è una tecnica vocale che nasce negli anni ’70-’80 del secolo scorso, e che oggigiorno è molto diffusa nel mondo della musica: in questo particolare genere è di fondamentale importanza il flow, vale a dire la capacità del rapper far andare a tempo un testo che non deve essere necessariamente scritto in metrica. Per questa ragione i versi sono di lunghezza molto variabile, dal momento che in un tempo, solitamente un 4/4 “C” o un 2/4 “C tagliato”, vi possono stare un numero indefinito di sillabe, rimanendo medesimo il ritmo della musica.
Altra caratteristica fondamentale di un testo rap è quella di avere un fittissimo intreccio di figure di suono, dalla rima e dalle consonanze e assonanze all’allitterazione: esse, come una sorta di maglia, si posizionano solitamente sull’accento tonico del tempo, e costituiscono la trama dell’ordito, ovvero il testo. A seconda della bravura di un rapper l’ordito puo’ risultare più o meno fitto, ma è fondamentale ricordare che non presenta assolutamente una struttura rigida come quella che è propria di un verso in poesia. Questa scia di figure retoriche di suono, come una sorta di filo, porta avanti il discorso del rapper, che, ricordiamolo, nasce come un improvvisatore davanti a un pubblico: più parole trova da inserire in questa collana di suoni, maggiore sarà l’effetto sonoro e, di conseguenza, il gradimento degli ascoltatori. A titolo esemplificativo, propongo una sezione del brano Lose Yourself del rapper Eminem, con la spaziatura – arbitraria – che mi viene proposta da Google Testi: ho segnato in corsivo su quali parole cada il rullante della canzone (l’accento forte del ritmo).

[…]
Oh, there goes Rabbit, he choked
He’s so mad, but he won’t give up that easy? No
He won’t have it, he knows his whole back city’s ropes
It don’t matter,
He’s dope, he knows that, but he’s broke
He’s so stacked that he knows
When he goes back to his mo-bile home, that’s when it’s
Back to the lab again yo, this whole rhapsody
He better go capture this moment and hope it don’t pass him
[…]

Come si può notare ascoltando la canzone la spaziatura del testo a volte coincide con il tempo, altre volte, come in questo caso, è arbitraria; e del resto, procedendo la musica, sarebbe impossibile distinguere dei veri e propri versi, che normalmente in poesia servono a scandire le così fondamentali pause: il rapper, com’è facile immaginare, ha esigenze diverse.
Per quel nulla che abbiamo visto, e per quel che sottintendo e non argomento come dovrei, il rap si configura come un metodo più libero, dotato di un andamento simile a quello di un discorso serrato.
Proviamo però ora a riordinare questo flusso andando a capo ogni volta che incontriamo una parola sulla quale si appoggia la base.

Oh, there goes Rabbit, he choked
He’s so mad, but he won’t
give up that easy? No
He won’t have it, he knows
his whole back city’s ropes
It don’t matter, he’s dope,
he knows that, but he’s broke
He’s so stacked that he knows
When he goes back to his mo
bile home, that’s when it’s back
to the lab again yo,
this whole rhapsody, he better
go capture this moment and hope
it don’t pass him

In questo modo riconoscere una sorta di versificazione può essere più facile: settenario, sette senari, settenario, senario, senario, settenario, ottonario, quaternario. Lungi dal dire che non domini il ritmo, essendo il senario il verso di gran lunga più presente; certamente però si può dire che il numero di sillabe non è vincolante in modo assoluto per quello che vediamo, e che ci sia una sorta di filo conduttore – costituito dalle sillabe sul rullante – nel quale si concentrano la maggior parte degli artifici retorici di suono. Ora che abbiamo scoperto alcuni dei possibili genitori della musica dei Poetry Slam, analizzeremo alcune brevi sezioni di questi testi, cercando qua e là di esplicitare alcune possibili connessioni; tali osservazioni per gli esperti spesso saranno banali; ma in verità più che fornire risposte desidererei immettere nel cuore del problema, di cui parlerò più estesamente verso la fine.

Analisi di un Poetry Slam

Prendiamo ora l’inizio della poesia Ultras di Luca Bernardini, partecipante del Poetry Slam, per vedere in prima analisi se è possibile fare qualche paragone sul piano ritmico:

Papà ho pensato ‘n po’ sti ggiorni, visto che te nun me parli ce parlo io co mme ….
Ho pensato che bisogna proprio cambià que’e ssedie azzurrine che ce so’ n cucina,
co’ quer neon fanno na combinazione letale, pare ‘na bettola, ‘n quarche schifo de cantina
me sò reso conto ch’a tristezza d’a vita mia potrebbe esse’ n parte dovuta anch’a quello
…sta luce, ste sedie, ste ssedie co sta luce! Quer neon che te s’infila ner cervello
Sò sempre state lì ‘ste robbe, t’abitui a tutto e mica ce fai caso, pure a vedette così me so’ abbituato,
pensa’ ch’eri gajardo e tosto, co ddu spalle, co’ du cojoni …
mo’ me sembri ‘n pezzo de cacio senza maccheroni
[…]

Questo, invece, il principio della poesia Vetro di Andrea Bitonto, anch’egli concorrente al Poetry Slam di quest’anno:

Sono stanco e mi viene da piangere
la rima mi spinge, mi evita di soccombere
e le compere non le faccio mai, perché, sai,
penso che siano proprio assai
le cose che ho e hai
e nel bel mentre del nostro grattarci il ventre,
c’è chi scappa dai guai, guai grossi,
non sono solo neri ma pure bianchi gialli rossi,
e tu, di che colore lo vuoi?
quasi fosse un altro prodotto sullo scaffale
questa è una questione epocale,
altro che patatine e costatine di maiale
[…]

Ho proposto due esempi secondo me contrapposti di quella rete di connessioni foniche che sono andato brevemente a esporre: da una parte abbiamo un crivello molto lasso, al punto che sembra di ascoltare un ordinario discorso, però cadenzato, quantomeno nelle intenzioni e nella spaziatura, e ciò si nota dalla rima quasi sempre presente a fine verso. Dall’altra parte, invece, abbiamo una tela di ragno fitta che si lascia anzitutto guidare da una ricerca quasi ossessiva per la successiva parola che possa essere in rima, consonanza o assonanza con quelle precedenti.

I fini del Poetry Slam

Veniamo ora a chiederci: che debiti ha la poesia contemporanea dei Poetry Slam? E verso chi? Mi sono limitato a considerare un piano ritmico e fonico, ma questo discorso in realtà coinvolge anche le finalità, per cui questi testi sono scritti in un certo modo, e il genere di pubblico, a cui queste poesie si rivolgono.

Nei Poetry Slam lo scopo dei testi è quello di colpire il pubblico e/o la giuria, per vincere. Questo si può fare con testi polemici, forti, che, proprio come nella musica rap, parlano di attualità o di argomenti in cui solitamente vige la reticenza: penso a Bambola Gonfiabile di Eugenia Giancaspro, che parla di sessualità e violenza domestica; a Gypsies di Bojan Samson, in cui il tema razziale, così scottante per un serbo, viene a galla in tutta la sua crudezza. Non mancano però testi che, al contrario, sono riflessioni dal sapore quasi ordinario, che diventano speciali e si colorano grazie agli artifici fonici, come Le Chiacchiere di Andrea Bitonto (segnalo, di sfuggita, che, a fianco del titolo, appare anche una nota che recita «da leggere lentamente», quasi come un’indicazione di tempo per un brano musicale). Forse più di tutti si avvicina a quelle tematiche sociali che costituiscono l’ambiente in cui nacque la tecnica del rap, e che rappresentano uno dei più importanti argomenti di questa musica Elogio al progresso e angeli del subway di Fabrizio Sgroi. La denuncia sociale non è assolutamente esclusiva del genere rap, che se in qualche caso l’ha trasmessa, sicuramente l’ha ereditata. Pensiamo a The Howl di Allen Ginsberg, all’origine della poesia beat, peraltro anch’essa fortemente legata alla musica, in particolare il jazz.

Il cambio di fruizione che ha rimesso al centro un contatto diretto col pubblico che cambiamenti ha portato alla poesia? Confrontando i testi dei partecipanti con quelli effettivamente recitati durante le varie manche mi sono accorto che in certi casi essi differivano. Vi erano brevi omissioni, scambi, varianti che però non alteravano il testo nella sua totalità, e non compromettevano la performance.
In un brano di Luca Bernardini, Tuttuncieloazzurro, che si contraddistingue per un’elevata sperimentalità del linguaggio, troviamo:

[…]
Una menica meriggio magari farei una battuta e tu crepapelleresti per quasi dieci primi come una fanfolina.
Un verdì mattina drinnerai al mio zerbino scrosciata zuppettosa, mi schioccherai forte e poi scosterai […]

Quando invece nella registrazione si sente:

[…]
Un verdì mattina magari farei una battuta e tu crepapelleresti per quasi dieci primi come una fanfolina.
Una menica meriggio magari drinneresti al mio zerbino scrosciata zuppettosa, mi schioccheresti forte e poi scosteresti […]

Parimenti interessante è notare come spesso pause più o meno brevi vengano omesse dal manoscritto: credo sia diretta conseguenza del fatto che, dovendo il poeta recitare di persona ciò che ha scritto, sappia già che intonazione e che carattere dargli.

La poesia degli slammer è poesia impura o un «virgulto di palma fiorente»?

Qual è la causa di queste differenze tra testo scritto e sua esecuzione orale? Come si può classificare il Poetry Slam? Ciò che ascoltiamo ai Poetry Slam è poesia o è rap senza basi musicali? E, se è poesia, a che genere ascriverla? E poi, si sta parlando di poesia alta o bassa? O forse è poesia popolare? È questo il futuro, o uno dei futuri, della poesia? È lecito chiamarla così? Stiamo uccidendo la poesia, inquinandola e rendendola impura, oppure tutto questo è opera del tempo, così vanno le cose e piuttosto che un bastardo bisognerebbe considerare questo particolare incrocio come un «virgulto di palma fiorente» che effonde nel fusto della poesia nuova linfa, e traccia un solco nuovo?

Note

* Al Poetry Slam Argonline.it e Poesiadelnostrotempo.it hanno dedicato il saggio Lo spettacolare caso del Poetry Slam di Valerio Cuccaroni e la rubrica Slammer di Paolo Agrati, NdR.

Foto di Fabrizio Sgroi, scattata da Elena Bagnulo

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