Il «dolore minimo» del titolo esprime la complessa condizione transessuale pronunciata con grande potenza poetica, volta a infrangere il muro del silenzioso tabù culturale. La giovane autrice racconta la sua rinascita luminosa con versi, delicati e profondissimi al tempo stesso, che hanno fatto parlare Dacia Maraini e Alessandro Fo di un caso letterario. «Quando nacqui mia madre / mi fece un dono antichissimo. / Il dono dell’indovino Tiresia: / mutare sesso una volta nella vita», narra Giovanna Cristina Vivinetto, che, in questo diario in versi, confessa: «non mi sono mai conosciuta / se non nel dolore bambino / di avvertirmi a un tratto / così divisa. Così tanto parziale». Con una nota di Alessandro Fo e presentazione di Dacia Maraini.

Dalla prefazione di Dacia Maraini

La fatica di essere madre di se stessa, il difficile compito di partorire un altro da sé che sarà sempre quell’io, sembra dirci l’autrice, assomiglia a uno straziante guardarsi indietro per ritrovare una se stessa lontana e quasi irriconoscibile nei giochi sempre uguali dell’infanzia. Lo sguardo che diventa indagatore, spia, sprofonda, scava cercando di trovare risposte in quella lei ancora nascosta, segreta e lontana. […] Ma con l’adolescenza questo doppio è come se prendesse a parlare, ad avere una voce, un sentimento: sembra quasi che le due identità dialoghino fra di loro […]. E il suo continuo essere e non essere quel corpo, vedersi diventare a poco a poco un’altra persona, la gioia, la sorpresa e anche il senso di vuoto di quella nuova nascita, Giovanna Cristina Vivinetto ce le racconta col ritmo serrato e affascinante della sua dolente lingua poetica. La madre-figlia che nasce da un padre sublimato e cancellato, che ripercorre le tappe di questa trasformazione dolorosa ed eroica, non ha ripensamenti o paure, ma ha l’urgenza di raccontare quello che è stato. Non per trovare giustificazioni ma per consegnarci questa figlia inaspettata in tutta la sua legittimità. E questa nuova nascita al mondo, questo delicato e profondo scambio di ruoli diventa la ragione vera della sua poetica che scorre come i fotogrammi di un film che si rincorrono mostrando dettagli, sguardi, scorci prima nebulosi e poi sempre più limpidi e cristallini, sul ritmo lento del suo respiro.

Dalla postfazione di Alessandro Fo

Non so se prima di queste poesie, ovvero prima della rivoluzione personale entro la quale è scesa docilmente, di propria iniziativa, con tremore, immagino, e con speranza, Giovanna Cristina Vivinetto abbia mai scritto poesie indirizzate a se stessa. Non lo so, ma provo a indovinare: non credo. Le poesie che leggiamo qui, infatti, sono sì rivolte a se stessa, ma a un sé che non c’è più, è chiuso nel passato e non è più recuperabile. Paradossalmente è questa separatezza che consente ora di rivolgergli un indirizzo poetico. La Vivinetto lo contempla da una certa distanza, con la stessa nostalgia carica di affetto con cui si guarda a una persona cara perduta. Molto ci lega ancora a lei, ma si è frapposto un diaframma – il perentorio diaframma dell’ineluttabile. […] Di questo suo percorso impervio, fatto di risistemazione di tutti i rapporti, di riscrittura di nomi, documenti, connotati e anatomia, l’io-demiurgo tiene un diario, grazie al quale partecipiamo di un attraversamento esistenziale che di rado è dato sperimentare, e altrettanto di rado si registra in poesia. […] 

 

Da Dolore Minimo (Interlinea edizioni 2018)

Dalla sezione Cespugli d’infanzia

A quel tempo ogni cosa
si spiegava con parole note.
Sillabe da contare sulle dita
scandivano il ritmo dell’invisibile.

Tutto era a portata di mano,
tutto comprensibile
e immediatamente dietro l’angolo
non si annidava ancora l’inganno.

La poesia era uno scrupolo
d’altri tempi, un muto richiamo
alla vera natura delle cose.
Così dissimulata da confondersi
con i palloni, con le bambole
dell’infanzia.

In quei tempi non c’erano disastri
da centellinare, difformità
da curare dentro abiti larghi,
padri da rifiutare e nomi
da pedinare in fondo agli stagni.

*

Accadde che le ombre della mia infanzia
si addensassero attorno al mio letto,
afferrandomi le caviglie, facendosi
strada sulle gambe, scivolando sul ventre,
intrecciandosi infine sul petto.

Si dice che le anime orfane
vaghino di notte in cerca delle anime
madri – a cui riallacciarsi.
Ma le ombre che sostano sui muri
sono abbagli di morte imprevisti
– ti si incurvano addosso
a bisbigliare la morte di un caro.

A quel tempo non mancò nessuno
– eppure le ombre continuavano
a rantolare una perdita.
Fu allora che compresi tutto.

Bisognava che io morissi
per strappare il mio tempo
fermo dai cespugli dell’infanzia
– che lo lasciassi riprendere
anche senza di me.

Bisognava che affidassi il mio nome
agli spiriti bambini del passato
per lasciare il posto ad altri cespugli,
ad altre infanzie, senza ombre.

 

Dalla sezione La traccia del passaggio

Dev’esserci stato in questo corpo
un punto scoperto, indifeso
un angolo lasciato illeso,
un grumo di nervi intoccato.
In quel punto noi ci incontravamo,
rifuggivamo da chi non capiva
additandoci l’incomprensione del mondo.
Solo lì avevamo il diritto
di amarci senza presupposti,
senza congetture – solo lì
ci conoscevamo davvero.

Dev’esserci stato in questo corpo
un ponte ancora in piedi,
un traliccio telefonico
a recapitarti la mia chiamata.
Dev’esserci un muro senza ombre
di morti, un rifugio dove scappare
sempre – in questo corpo.

Come in ogni guerra la terra
cede, si annullano gli spazi,
i punti si allineano tutti uguali,
saltano le forme, le comunicazioni.
Ciò che resta si raggruma indistinto.

Da quando il corpo ha cominciato
a mutare, ogni punto è una parete
sfondata. Non ci sono più angoli
inviolati a contenerti.

*

La traccia del passaggio – mi dici –
da qui non si vede. Non è evidente.
Tu non sai, ma ci sono solchi
estranei alla luce degli occhi.
Benedico il tuo non comprendere,
l’innocenza con cui ti arresti
un poco prima del dolore
– l’istinto di tirarti fuori.
Non chiedere: non ho sintagmi
con cui adornare la realtà delle cose.
Non ho perifrasi per salvarmi.

La traccia del passaggio – non la vedi
perché il mio sentiero è troppo
stretto per starci in due.

 

Dalla sezione Dolore minimo

I

Noi eravamo fra quelli chiamati
contro natura. Il nostro esistere
ribaltava e distorceva le leggi
del creato. Ma come potevamo
noi, rigogliosi nei nostri corpi
adolescenti, essere uno scarto,
il difetto di una natura
che non tiene? Ci convinsero,
ci persuasero all’autonegazione.
Noi, così giovani, fummo costretti
a riabilitare i nostri corpi,
obbligati a guardare in faccia la nostra
natura e sopprimerla con un’altra.
A dirci che potevamo essere
chi non volevamo, chi non eravamo.
Noi gli unici esseri innocenti.
Gli ultimi esseri viventi, noi,
trapiantati nel mondo dei morti
per sopravvivere.

*

II

Tutto iniziò con l’avere confidenza.
Eravamo solo noi due e il corpo.
Dapprima c’ero io soltanto,
lei venne poi con l’urgenza piccola
del vento, della pioggia, delle radici
– di tutto ciò, insomma, che non si può
controllare ma semplicemente accade.
Riposava nell’ordine inviolato
della natura. Forse da secoli
era iscritta in una qualche cellula
tramandata col tempo fino a me.
Perciò non seppi, non potei scacciarla.
Dovetti, come ogni destino, prenderne
atto. Forse era qui per salvarmi.
Era me più di quanto io stesso
potessi appartenermi. Mi fidai.
Così iniziai a darle spazio.

*

III

In pubblico ormai era «mia figlia».
Per la prima volta nella vita
il padre era sceso a compromessi.
Capì cosa volesse dire essere padre.
Imparò il nuovo nome più per se stesso,
per convincersi che fosse innocuo
e che nel pronunciarlo non sembrasse
un insulto. Si sorprese il padre
che, tutto sommato, non era poi
così grave. Ma, a volte, il padre
perdeva il contegno, tutto l’impegno
degli anni si incrinava quando
in pubblico si lasciava sfuggire,
declinato male, un articolo,
un nome, una vocale a tradire
il suo piccolo imbarazzo. Il dolore
allora si accumulava tutto in quella
disattenzione. Tutto allora mutava.
In quei momenti il padre
desiderava non essere più padre.

 

Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa nel 1994. Laureata in Lettere, vive attualmente a Roma, dove studia Filologia moderna all’università La Sapienza. I suoi testi sono apparsi e sono stati recensiti sul n. 86 della rivista di poesia e critica letteraria “Atelier”, sulla rivista online “Pioggia Obliqua” e “La Tigre di Carta”, sui siti web “Poetarum Silva”, “Atelier online”, “Carteggi letterari”, “Nazione Indiana” e sul blog della Rai dedicato alla poesia e diretto da Luigia Sorrentino. Dolore minimo è uscito per Interlinea edizioni nel 2018.

 

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