Poesia del nostro tempo presenta l’Archivio virtuale de L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie.

Dina Basso è nata nel 1988 ed è cresciuta a Scordia, in provincia di Catania. Con la sua opera prima, Uccalamma – Bocca dell’ anima (Le voci della Luna edizioni, 2010) ha vinto per la sezione “Autore Giovane” il premio Gozzano 2010 e la IX edizione del Premio D. M. Turoldo, sezione under 25.
Riminannu u sugu
acchianunu supra supra
tutti i cosi ca a forza
ava ’ncarcatu o funnu
(macinatu, cipudda e sasizza).
Macari ju,
ogni ttantu,
ma scordu di riminarimi i pinzeri,
e s’azziccunu tutti cosi
’no funnu da ma testa.
Mescolando il sugo / salgono sopra sopra / tutte le cose che a forza / avevo calcato al fondo / (macinato, cipolla e salsiccia). // Anche io, / ogni tanto, / dimentico di mescolarmi i pensieri, / e si attaccano tutte le cose / nel fondo della mia testa.
QUESTIONARIO
1. La preghiamo di indicarci i modelli di riferimento (italiani e stranieri) della sua poesia dialettale, dove questi studi e letture l’hanno portata all’individuazione del suo stile.
Il poeta che ha influenzato certamente di più la mia produzione, almeno all’inizio, è stato mio zio, Salvo Basso, stroncato da un tumore a 38 anni. L’uso nuovo della lingua dialettale siciliana, “rimaneggiata” e riforgiata, densa di neologismi, la sua poesia introspettiva e ironica, sono certamente le “eredità” che mi ha lasciato, con cui faccio i conti tuttora, ma da cui, lentamente, calibro anche le distanze. Un altro punto fermo letterario è Franco Loi: in lui introspezione, impegno civile, ricerca del sé, misticismo, umanità, si fondono in un’armonia e un equilibrio unico. Loi è il modello per eccellenza a mio parere, perché appunto riesce a toccare molte tematiche mantenendo un’intensità fortissima; non penso di aver assorbito molto dalla sua scrittura, sono ancora troppo giovane e non gioco certo a fare la donna vissuta, ma Loi mi ha dato un orizzonte verso cui tendere: un esempio di sguardo lucido che riesce a vedere l’alterità da sé (gli altri uomini, Dio) senza perdere di vista sé stesso. Per quanto riguarda gli autori stranieri, amo molto Raymond Carver: le sue poesie le ho divorate e, subito dopo, si è aperto un periodo molto prolifico a livello letterario: penso infatti che il suo modo di scrivere, le ampie narrazioni, l’attenzione ai particolari, la consapevolezza della propria miseria, mi abbiano mostrato un modo diverso di raccontare, e abbiano consolidato la mia tendenza a “partire dalle cose”, dagli oggetti del mondo reale, dai gesti quotidiani, nel fare poesia.
2. Ci sono differenze significative tra la sua produzione di poesia in dialetto e quella in italiano (se presente)?
Non ci sono, nella mia breve produzione, molti versi in italiano. Ne ho scritti pochi, quando ho iniziato a fare poesia, a 15 anni, e col tempo ho abbandonato l’uso dell’italiano nella lingua poetica. Il motivo è semplice: i miei versi in italiano sono più indecisi, mancano di quella forza che invece, ritengo abbiano i versi in dialetto. Utilizzare una lingua, seppur rimaneggiata, ma decisa e musicalmente attraente come il mio dialetto, mi aiuta molto a scrivere di temi, sensazioni, talmente interiori da averli pensati in dialetto, piuttosto che in italiano.
3. Con quali poeti contemporanei (dialettali, italiani, stranieri) intrattiene un dibattito costruttivo? Con quali ha semplicemente condiviso un percorso di gruppo (blog, riviste, associazioni) o di scambio di opere letterarie? Quali poeti italiani e/o dialettali l’hanno colpita di più?
Devo molto ai blog di poesia che mi hanno ospitata sino a ora, e in particolare, a Iole Toini e a Francesco Marotta, che mi hanno dato questa bella possibilità. Ho avuto l’opportunità, grazie a questi, di avere i pareri di poeti che stimo molto come Flora Restivo e Nino De Vita; da quando vivo a Bologna, ho il supporto e il parere di Sergio Rotino, che è stato fondamentale anche nella curatela del mio libro. I miei testi li faccio leggere, da inediti, a pochi poeti: Federico Federici, poeta in lingua italiana che si occupa anche di videopoesia, e Mariagiorgia Ulbar, poetessa anche lei in lingua italiana; entrambi sono, prima di tutto, miei amici, e forse per questo gli affido i miei lavori: sono sicura della loro lealtà ed obiettività di giudizio. Ciò non significa, però, che non abbia contatti anche con altri poeti, che sono poi quelli che stimo molto: tra i dialettali, in particolare Fabio Franzin, che scrive in dialetto veneto e ha pubblicato con la mia stessa casa editrice, e all’inizio della mia “carriera” con Franco Loi, attento lettore e critico. Rimpiango molto di non aver conosciuto Assunta Finiguerra, scomparsa poco dopo aver vinto il premio MezzagoArte 2009 (dove io, invece, sono arrivata seconda): la sua voce la ritengo una delle più interessanti e forti del panorama attuale. Anche Franca Grisoni, che ha avuto modo pure di leggermi, ritengo sia una delle neo-dialettali più interessanti. Tra i poeti in lingua italiana, amo molto Patrizia Cavalli, Giovanni Raboni, Patrizia Valduga.
4. Quale l’immaginario o le immagini più diffuse, nella sua opera in dialetto? Ci sono differenze tra l’immaginario che usa in dialetto e quello delle sue opere in italiano o in prosa (se presenti)?
Il mio libro si intitola “uccalamma”, che sarebbe la bocca dello stomaco, non a caso: è infatti una poesia molto corporea, che parte “da dentro” per abbracciare, scontrarsi, dialogare col mondo esterno. Sono quindi onnipresenti le immagini corporee: dalle vene, alle mani, alla testa, alla schiena. Molto più offuscati, invece, sono i ritratti altrui: appena abbozzati, mostrano più che altro atteggiamenti, comportamenti, raramente si soffermano sui particolari che invece abbondano sull’io narrante. Un’altra immagine onnipresente nel libro, è quella del cibo: sia nella preparazione degli alimenti, che nell’atto del mangiare. Il cibo infatti, è un po’ il filo rosso di questo libro, ciò che unisce agli altri, ciò che mi connette col mio “interno”. L’immaginario, quindi, oscilla tra corpo e cibo, prima in solitudine, ma toccando poi il rapporto con gli uomini, i bambini, le mie origini, la scrittura. La mia poesia è piena anche di riferimenti alla morte, intesa prima di tutto come distacco: una morte quindi che non è solo il lutto che ho vissuto, ma che si ripete costantemente con l’abbandono, la fine di una relazione, la lontananza fisica e mentale dagli altri.
5. Quali teorie (estetiche, politiche, etiche, critiche, etc…) sono presenti all’interno della sua poetica? Il suo modo di lavorare a un’opera di poesia (il processo formativo che ha usato) è stato influenzato da queste teorie? Se sì, può descrivere anche le modificazioni della sua scrittura/operatività in poesia, in dialetto, nel corso degli anni?
Ho già detto che scrivo da quando avevo 15 anni, e ho iniziato a farlo per superare un lutto, una delusione amorosa. Allora non avevo certo nessuna teoria ad influenzarmi, indagavo semplicemente il mio dolore. Mi sono resa conto però, andando avanti nello scrivere, che la mia poesia è un dialogo con me stessa che ha per oggetto la mia femminilità, la mia persona, e come questa si incontri o si scontri con gli uomini. Influenzata certamente dalle teorie post-femministe, cerco di indagare su cosa mi distingue come donna, quale sono stati i processi culturali ed educativi che mi hanno portata ad essere la donna che sono, qual è il mio rapporto con la “tradizione femminile”, nella specificità con la mia famiglia. E dopo un’analisi del genere, mi chiedo soprattutto: cosa posso tenere di tutto ciò, cosa devo invece, modificare? La risposta me la forniscono spesso gli uomini, che coi loro atteggiamenti mettono in luce tutte le contraddizioni tra il femminile che ho appreso culturalmente e quello che invece, femministe come la Irigaray propongono. Di certo, quindi, le mie poesie parlano col lessico dell’amore, ma è un amore che ha poco di romantico ed etereo, molto di fisico, ancor di più di speculativo.
6. Il suo modo di scrivere in dialetto è rappresentativo del parlato della sua area di appartenenza (paese, città, provincia, regione)? Quali le differenze con il parlato? Ha introdotto altre lingue/linguaggi/codici/segni nella sua opera in dialetto? Ha recuperato espressioni linguistiche arcaiche?
Il dialetto che utilizzo è quello del mio paese natale, Scordia, in provincia di Catania. Non è però un dialetto puro, non è il dialetto che parlavano i miei bisnonni, di certo: è quello parlato da noi giovani, in famiglia, al mercato, che si impasta all’italiano, che storpia le parole. Non sono di certo una purista, ma d’altro canto, per me non avrebbe senso scrivere in una lingua che non esiste più, che non si parla: il dialetto in cui scrivo invece, sarà pure molto personale, familiare, ma è certamente più vivo che mai. Certo, utilizzo talvolta anche termini molto antichi, ma purché siano ancora in uso nel parlato. Le differenze con la mia lingua paesana certamente ci sono, soprattutto il mio dialetto è molto italianizzato, e penso che alcune persone anziane potrebbero storcere il naso, ma si avvicina molto, come ho appena detto, a quello contemporaneo parlato dai giovani. In più, il mio modo di scrivere è illuminato dalla mia nonna materna, che parla un dialetto “elastico”, che accoglie parole italiane, mantenendo comunque un impianto tradizionale. Ad esempio, amo molto i modi di dire siciliani, le espressioni tipiche che cerco però di strappare alla tradizione (o al senso comune, come faccio coi proverbi) per ricollocarli in un contesto “inedito”. Non mi spaventa poi, neanche l’uso di parole straniere che talvolta ho utilizzato: facendo parte del nostro lessico quotidiano, penso che abbiano diritto di cittadinanza anche nella poesia dialettale.
7. In percentuale, quante persone pensa parlino in dialetto nella sua area di appartenenza (paese, città, provincia, regione)?
Io penso che il dialetto, nella mia terra, lo parlino almeno l’80% della popolazione. Forse i ragazzini, adesso, si rifiutano di parlarlo, perché i genitori tendono a parlare in italiano in casa… certamente però, chi ha studiato, chi pensa di far parte di una elite economica, tende a parlare prima di tutto in italiano. Io penso che innanzitutto vada insegnato l’italiano, ma che ad una certa età sia necessario capire e saper parlare il dialetto: è la lingua che ci mette in comunicazione anche coi ceti sociali più bassi, oltre ad essere quella che parlano i nostri nonni, che è carica della nostra storia.
8. La sua regione presenta leggi di tutela del dialetto o supporta le pubblicazioni in dialetto con qualche legge? E’ in grado di illustrare queste leggi (o dare i loro riferimenti)?
Sinceramente non so se la mia regione supporti o meno le pubblicazioni in lingua siciliana, né se abbia in atto politiche di tutela del dialetto. Certamente, all’interno delle scuole, so che è abitudine svolgere laboratori teatrali in lingua dialettale, o di canti popolari: il tutto è però finanziato dall’unione europea per opporsi alla fortissima dispersione scolastica nel nostro territorio.
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