Avendo recentemente redatto l’apparato critico per La gentilezza dell’Angelo, antologia dello Stilnovo uscita per la nuova collana di classici a mia cura intitolata La costante di Fidia di Marco Saya Edizioni, ho avuto modo incidentalmente di riflettere su alcuni rapporti tra poesia, filosofia e teologia che emergono prepotenti nella poesia di Dante e di Guido Cavalcanti, per descrivere i quali occorre partire da un fatto storico incontrovertibile: Averroè e Avicenna, i due filosofi arabi interpreti di Aristotele, fornirono nel corso del Medioevo la base filosofica dell’aristotelismo alla Chiesa cristiana d’Occidente.

L’Europa tra il X e il XII secolo, infatti, era stata raggiunta dall’aristotelismo attraverso veicoli indiretti, grazie ai commentatori arabi alle loro traduzioni dal greco in arabo che poi sarebbero passate dall’arabo in latinocon tutta la difficoltà immaginabile dell’iter linguistico a causa dell’eterogeneità della lingua araba rispetto a quelle classiche. Certo, a causa di alcune asserzioni aristoteliche irriducibili all’interpretazione biblica, si ebbero anche osteggiamenti, per non dire reazioni violente da parte della Chiesa, tanto che gli scritti di Aristotele vennero a un certo punto addirittura messi al bando: nel 1277 l’insegnamento di Aristotele fu vietato persino a Parigi, proprio nell’ambiente universitario dove fino a quel momento l’Auctor preferito da Tommaso d’Aquino era stato studiato tranquillamente. Non aiutava il fatto che Aristotele avesse sostenuto esplicitamente (De coelo, II) che il mondo «nella sua totalità non è generato, e non sammette che possa corrompersi, come alcuni dicono, ma è uno, non ha principio né fine in tutta leternità della sua durata». Anche se Tommaso aveva cercato di conciliare il Cristianesimo con le asserzioni aristoteliche più ardite, un tale passo sembrava negare davvero la Creazione, risultando genuinamente eccessivo ad occhi cristianiEppure, nonostante l’alone di eresia patente, il mondo culturale dell’epoca non aveva potuto, e non avrebbe potuto nemmeno in futuro, esimersi dalla considerazione dei testi aristotelici, anche se la Chiesa era disturbata dalla preminenza logico-materialistica di Aristotele, con l’aggravante del fatto che i suoi testi erano stati introdotti in Occidente dagli Infedeli, anzi, da veri e propri eretici patentati.

Avicenna, ad esempio, era sicuramente da considerarsi eretico per avescomposto la figura di Dio e interpretato la creazione del mondo in termini di intelligenze successive, emanatorie, plotiniane: Dio è l’Essere necessario da cui si genera una prima intelligenza, che a sua volta produce una seconda intelligenza, poi una terza, una quarta, una quinta eccetera, ognuna delle quali sovrintende in maniera causale a una sfera celeste, fino alla decima intelligenza legata al mondo sublunare, quella dell’intelletto agente che permette agli uomini di capire, come una luce che illuminando gli oggetti consente agli esseri umani di interpretare forma e materia delle coseLa decima intelligenza appartiene a tutti ma è contemporaneamente super individuale: l’iter sequenziale con cui Dio si avvicina ai processi mentali dell’umanità è di tipo naturalistico, dalla prima alla decima intelligenza è assente il concetto fondamentalmente veterotestamentario dell’amore di Dio per la creazione, Dio è fermo nella sua indifferente, lontanissima posizione: un Dio siffatto è, quindi, ben lontano dalla concezione ebraico-cristiana del Dio Padre. Viene così messo in discussione proprio il momento della creazione; per Avicenna, peraltro, l’eternità è condizione condivisa da Dio e dalla creazione stessa.

Non è peregrino notare come la metafora della luce di ascendenza plotiniana e avicenniana, derivante dal sistema ipostatico suddetto, sia cara agli Stilnovisti, influenzati profondamente da questa visione logico-razionalistica ormai diffusa nella temperie culturale del Basso Medioevo ma originata dalla frequentazione reciproca tra la poesia le metafore di ascendenza religiosa più ricorrenti: dalla metafora giovannea che dice: “Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre”(Giovanni I1, 5) alle tre guide della Commedia passando per le intelligenze luminose di Avicenna il viaggio è breve: Virgilio, Beatrice e San Bernardo sono le tre luci che illuminano lintelletto del pellegrino nel suo percorso ascensionale verso la spectatio Deilumen naturale, lumen gratiae, lumen gloriae. Si rintracciano elementi del sistema emanatorio avicenniano anche in altri luoghi della poesia e della letteratura dell’epoca, ad esempio nella concezione degli angeli definiti come “intelligenze”; ma Dio stesso si carica di attributi intellettivi, secondo la terminologia filosofica che ritroviamo puntualmente citata nel Paradiso dantesco.

È interessante osservare come anche la teoria filosofica degli spiriti, che permea in Dante e in Cavalcanti lo Stilnovo nel topos dell’amore quale “spirito sottile” che passa attraverso lo sguardo, appartenesse all’epoca ad un’area culturale abbastanza eterogenea: Dante la riprende da Alberto Magno che a sua volta la trae dalla fisica di Aristotele in base al principio che esisterebbero degli spiriti vitali i quali, attraversando il corpo, lo vivificano; Cavalcanti, invece, la trae da Averroè, ovvero dquella stessa area miscredente, eretica di cui stiamo parlando.Sta di fatto che Guido Cavalcanti, il “primo (ex) amico” di Dante, è profondamente permeato di averroismola corrente artistotelica che rappresentava, in fondo, la versione più pericolosa per la Chiesa. Averroè interpreta Aristotele in modo ancor più puntuale e fedele rispetto ad Avicenna, proprio per questo concede meno spazi per un’interpretazione dottrinaria cristiana: è certo però che il terremoto logico e ideologico si rintraccia, come in Avicenna, nella dottrina della Creazione, laddove Averroè introduce un’idea dell’universo concettuale greco, in base alla quale materia e non-materia sono due campi separati, esistenti entrambicom’era già per Avicenna, ab aeterno; tesi inconciliabile con i dettami della Chiesa (e con il testo biblico in sé), giacché in tal modo la materia non sarebbe stata più creata da Dio in quanto unico essere dotato di eternità. Per Averroè, in definitiva, sostenere l’eternità coeva della materia e di Dio significava conciliare la Fisica e la Metafisica di Aristotele in una visione unitaria, anche a costo di escludere completamente l’idea di una creazione divina.

Eppurenonostante le distanze e i sospetti generati contro Aristotele dalla diffusione delle versioni arabe, accadde in seguito ciò che tutti sappiamo: la Chiesa, in un momento storico preciso, decise di assumere Aristotele come Auctor supremo a causa della sua importanza, scendendo di fatto a patti con l’aristotelismo e con la filosofia greca e cercando di depurarlo dagli elementi spuri. A questo punto, gli stessi pensatori cristiani, spinti dall’esigenza di salvare capra e cavoli, tentarono di trovare una soluzione in un modo abbastanza ipocritaovvero introducendo la dottrina della doppia verità erroneamente e pretestuosamente attribuita allo stesso Averroè: così, da questo momento in poi, il campo della verità rivelata non doveva più essere invaso dai filosofi, che non possono comprenderlopur permanendo, d’altra parte, una validità autonoma e scissa per le scoperte scientificheInsomma, con Alberto Magno, «theologica cum physicis principiis non conveniunt» (MetaphysicaXIII3, 7).In realtà, la dottrina della doppia verità è un crasso esempio di impostura concettuale, giacché in Averroè vige piuttosto la consapevolezza dell’unità della verità, che se pure risulta scindibile in due campi di pertinenza e di indagine, fede e ragione, è pur sempre una e per questo attingibile dalle menti semplici tramite la rivelazione e i sentimenti: tale è, peraltro, la concezione propria del Corano.

In virtù di tale edulcorazione del genuino pensiero averroistico e proprio in base a questo “dare a Cesare quel che è di Cesare”voluto dalla Chiesa, le discipline si avviarono verso quel processo di separazione che dura ancor oggi: teologia come discorso metafisico su Dio e filosofia come indagine sul mondo naturale cominciarono a separarsi proprio nella fase storica di cui stiamo parlando (salvo le puntuali intromissioni ecclesiastiche nel discorso sulla natura, ad esempio, di un certo Alberto Magno…). Questo processo è arrivato a un tal punto di compimento che attualmente le due discipline, un tempo intrecciate in modo indistricabile, non hanno quasi più nulla da spartirsi, la prima essendo di competenza della Chiesa e la seconda dell’universo culturale della laicitàEppure, un intellettuale medievale della statura di Dante sapeva ancora fondere sapienza teologica, astronomia, fisica, matematica, letteratura e quant’altro, sulla scorta di un enciclopedismo onnicomprensivo e sagace, che rappresentava la crasi sostanziale di tutto il sapere dell’epoca. È però proprio in quest’ottica separatoria che Virgilio non può accompagnare Dante alla vista di Dio. Il poeta mantovano non può farlo non tanto perché pagano, quanto perché rappresenta la Ragione (il lumen naturale di cui si parlava prima), che da sola non basta: com’è noto, per permettere la spectatio Dei la Ragione deve lasciare il posto a Beatrice, ovvero alla Fede. Non è forse un caso che, com’è meno noto, Cavalcanti venisse accusato da Dante di avere a disdegno Beatrice (a causa del componimento “Guata, Manetto, quella scrignutuzza…”, parodia patente di “Tanto gentile e tanto onesta pare…”, in cui Guido avrebbe preso in giro le qualità della donna amata dall’amico); quindimetalogicamente, Cavalcanti in realtà avrebbe avuto a disdegno la Fede stessain quanto filosofo e per giunta averroista. Dante, come si sa, non lo citerà mai esplicitamente nella Commedia avendolo bandito dalle sue amicizie (e sostituito, nelle citazioni importanti, con Cino da Pistoia come massimo stilnovista), ma schiafferà il genitore Cavalcante all’Inferno, nel girone degli epicurei, con un’accusa generica di eresia: certamente non a caso.

Si potrebbe aggiungere che anche la concezione dell’amore di Cavalcanti differisce ereticamente da quella di Dante e contribuisce ad allontanare Guido dal più giovane (e geniale) amicoNell’averroismo rivoluzionario di Cavalcanti vige in effetti la tripartizione anima sensitiva / cuore / anima intellettiva. L’anima sensitiva, in balia delle passioni, è quella più vicina al cuore. L’amore, in questo senso, è per Guido sofferenza, fonte di morte, non rappresenta un’istanza salvifica come in Dante. Per Cavalcanti l’amore è quindi un’esperienza sempre lacerante, dolorosa, drammatica, che deve essere ricondotta a un oltrepassamento di carattere intellettuale per poter essere elaborata e positivizzata. L’amore possiede una forza distruttrice, tale che la donna non ha nulla della compassione angelicata tematizzata da Dante; è bensì spietata, priva di dolcezza, le viene negata qualsiasi provenienza paradisiaca: è una specie di anti-Beatrice. Nel dualismo fondamentale a cui potremmo ridurre la tripartizione averroistica di cui s’è detto, vi è un movimento azione-reazione: l’anima sensitiva subisce e l’anima intellettiva reagisce, reduplicando così, nel processo della conoscenza filosofica, il dualismo aristotelico tra accidente e sostanza, il primo non avente esistenza in sé e per sé, la seconda dotata di esistenza e autoteliaCiò fa di Cavalcanti un poeta più conflittuale e, quindi, più eretico, moderno e rivoluzionario di quanto si pensi, come sostiene anche il vetusto Luigi Russo, che riassume in una bella pagina ancor valida della sua Storia della letteratura italiana quanto si deduce fin qui dalla nostra disamina: “Guido fu soltanto uno spirito spregiudicato, di temperamento sdegnoso e sprezzante, e si intende come volesse distinguersi dalla volgare gente, la quale si vendicava di queste sue altere virtù, dandogli del miscredente e delleretico. Non si può negare che nel pensiero di Guido ci siano degli aspetti averroistici ed epicurei; ma questa è già la caratteristica dei poeti dello Stil Novo, che non sono iniziati a una determinata scuola filosofica, perché essi si valgono soltanto delle idee che sono nellaria (come avviene di solito ai poeti), e le accolgono senza discriminazione alcuna e contaminandole insieme, e, se mai, si giovano di un formalismo logicizzante. Certo si può parlare della irreligiosità di Guido, ma in questo caso irreligiosità non significa ateismo, ma soltanto spregiudicato gusto di modernità. Dopo Dante, robustamente incentrato nella religione e nella filosofia tomistica, gli altri poeti cominciano a respirare in un cielo diverso: sono nominalmente cattolici, ma la loro religiosità non ha più nulla di strettamente confessionale; si tratta di una religiosità mondana, quale si trova sempre nel travaglio di ogni originale Creatore. […] È certo che nella poesia di Cavalcanti manca ogni sentimento mistico dellamore e della morte, nel senso medievale del termine, e le sue alate figure di angelelle si levano in un cielo razionale, dove non si avverte il respiro del vecchio Dio.” 

Lo Stilnovismo si colora così di una luce filosofica diversamente cristiana: chi volesse approfondirla, non ha che da leggere il volume La gentilezza dell’angeloAlla prossima emanazione.

 

Tre poesie “averroistiche” di Cavalcanti da La gentilezza dell’angelo. Viaggio antologico nello Stilnovismo, a cura di Sonia Caporossi (Marco Saya Edizioni 2019)

Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.

In quella parte – dove sta memora
prende suo stato, – sì formato, – come
diaffan da lume, – d’una scuritate
la qual da Marte – vène, e fa demora;
elli è creato – ed ha sensato – nome,
d’alma costume – e di cor volontate.
Vèn da veduta forma che s’intende,
che prende – nel possibile intelletto,
come in subietto, – loco e dimoranza.
In quella parte mai non ha possanza
perché da qualitate non descende:
resplende – in sé perpetüal effetto;
non ha diletto – ma consideranza;
sì che non pote largir simiglianza.

Non è vertute, – ma da quella vène
ch’è perfezione – (ché si pone – tale),
non razionale, – ma che sente, dico;
for di salute – giudicar mantene,
ch la ’ntenzione – per ragione – vale:
discerne male – in cui è vizio amico.
Di sua potenza segue spesso morte,
se forte – la vertù fosse impedita,
la quale aita – la contraria via:
non perché oppost’ a naturale sia;
ma quanto che da buon perfetto tort’è
per sorte, – non pò dire om ch’aggia vita,
ché stabilita – non ha segnoria.
A simil pò valer quand’om l’oblia.

L’essere è quando – lo voler è tanto
ch’oltra misura – di natura – torna,
poi non s’adorna – di riposo mai.
Move, cangiando – color, riso in pianto,
e la figura – con paura – storna;
poco soggiorna; – ancor di lui vedrai
che ’n gente di valor lo più si trova.
La nova – qualità move sospiri,
e vol ch’om miri – ’n non formato loco,
destandos’ ira la qual manda foco
(imaginar nol pote om che nol prova),
né mova – già però ch’a lui si tiri,
e non si giri – per trovarvi gioco:
né cert’ ha mente gran saver né poco.

De simil tragge – complessione sguardo
che fa parere – lo piacere – certo:
non pò coverto – star, quand’ è sì giunto.
Non già selvagge – le bieltà son dardo,
ché tal volere – per temere – è sperto:
consiegue merto – spirito ch’è punto.
E non si pò conoscer per lo viso:
compriso – bianco in tale obietto cade;
e, chi ben aude, – forma non si vede:
dunqu’ elli meno, che da lei procede.
For di colore, d’essere diviso,
assiso – ’n mezzo scuro, luce rade.
For d’ogne fraude – dico, degno in fede,
che solo di costui nasce mercede.

Tu puoi sicuramente gir, canzone,
là ’ve ti piace, ch’io t’ho sì adornata
ch’assai laudata – sarà tua ragione
da le persone – c’hanno intendimento:
di star con l’altre tu non hai talento.

*

Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.

E’ vèn tagliando di sì gran valore,
che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto
che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco.

*

Pegli occhi fere un spirito sottile,
che fa ‘n la mente spirito destare,
dal qual si move spirito d’amare,
ch’ogn’altro spiritel[o] fa gentile.

Sentir non pò di lu’ spirito vile,
di contanta vertù spirito appare:
quest’ è lo spiritel che fa tremare,
lo spiritel che fa la donna umìle.

E poi da questo spirito si muove
un altro dolce spirito soave,
che sieg[u]e un spiritello di mercede:

lo quale spiritel spiriti piove,
ché di ciascuno spirit’ ha la chiave,
per forza d’uno spirito che ‘l vede.

 

Letture consigliate

La gentilezza dell’Angelo. Viaggio antologico nello Stilnovismo a cura di Sonia Caporossi, Marco Saya 2019.
Pasquale Hamel, Averroè un filosofo all’indice, Tipheret 2015.
Jean-Baptiste Brenet, Averroè l’inquietante. L’Europa e il pensiero arabo, Carocci 2019.
Olga Lizzini, Avicenna, Carocci 2012.
Gianfranco Contini, Cavalcanti in Dante, Einaudi 1976.
Noemi Ghetti, L’ombra di Cavalcanti e Dante, L’Asino d’Oro 2011.

* Pubblicato precedentemente su Midnight Magazine.

 

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