Dalla raccolta inedita Abbiamo discusso dell’Aldilà

 

Neon

Hanno osservato contro luce il mio sangue
ho regalato le mie nudità a donne vestite di bianco.
Tra poco devono tagliarmi, togliere i pezzi, ricucire.
Col volto cianotico fisso mia madre soffrendo
voglio rientrare in lei per non dover più vagire.
Un passo indietro per non dover morire.
Ventidue anni alle spalle per non dover nascere – soffrire.
Tornare in lei dove ero l’unico corpo piccolo
In una sacca amniotica: un universo nero.
Ora sto supino a riflettere il neon.
Adesso dentro di me un paese si dilata,
si espande nel mio corpo – delirando penso:
sono stufo di Londra. Ma arrivano i guanti in lattice.
La vestita di bianco mi regala dieci secondi:
un’anestesia, occhi di cataratta: dimentico come respirare.
Un taglio, uno scoppio, un maroso, un tesauro di emorragie.
Mi risucchia la schiena il nadir della barella.
Mia madre mi parla, mi stringe la mano, è nuovamente la prima volta.
Mi ha detto che sono nati quattro gatti in questa notte “bella”.
È la seconda volta che esco con lei da una stanza di ospedale.

 

*

 

“Non ci sono più lune di miele,
anzi non ci sono più lune –
la marea non risale,
sono otto anni che non scopiamo.
Insopportabile il tuo alitare,
il tuo olezzo di cantina.
Ti accudisco come un bambino malato,
almeno un bacio.
Le tue vene non reggono, perdono sangue.
Ogni santo giorno pulisco le lenzuola
e ti faceva schifo il mio.
Mi fai pena – chi è ora la donna?
Voglio finirla qui è solo un castigo questo.
Ormai aspetto il tuo sonno per rinascere.
Ma sei tu quello che ha vinto,
ho cinquantotto anni e sono già morta.
Indosso un sorriso irrecuperabile,
una mezza luna a testa in giù.
Ho imparato a leggere gli astri
per parlare con i miei figli
mi sono aggrappata alle stelle
per vivere un incubo con te.
Fuori casa l’edera copre le finestre,
era il nostro simbolo nuziale, ricordi?
Fu buono per diciotto anni il letargo della lama che portavo in gola:
Ti dico basta, vattene, voglio vivere!”
Ma io so ché conficcata nella gola s’arrugginisce la lametta
e che mia madre non dice parola.

 

*

 

Dal mio occhio germoglia un fiore
un bulbo oculare pronto a sbocciare,
una bacca di rosa canina veloce a seccare.
Lo annaffio ogni sera
così sarà finché campo.
Le sue radici si legano al cervello
in piccoli rugginosi fili di ferro –
fitte d’ami da pesca che strattonano –
il dolore è rimbombante.
Fermo questo male nutrendolo
con la speranza di calmarlo – ucciderlo.
Ma una mattina lo lascerò
e libero di divorarsi in un’estinzione
fiorirà da una crepa del marmo.

 

*

 

Una donna offesa
da aghi di luce.
Spazzole di cipresso

nella pupilla –
la grattano, la puliscono.
Brulicano gli occhi,

bruciano, bruciati dal soffitto.
Nevrotiche le iridi ridono
affogando in un bianco rovente.

I terrazzi vomitano fiori
di una tenerezza mai arrivata –
una frusta che percuote e scaccia l’anima.

Così la mattina, madre del sonno
è un silenzio da sgrullare dai capelli.
La candida luce punge

le coste spezzate, speziate dagli acari,
lenzuola di polvere.
Una maternità, prossima come il risveglio.

 

 

Paolo Pitorri è nato nel 1990 e vive nella periferia sud di Roma. Ha frequentato l’università Bordeaux Montaigne 3 e la facoltà di Lille 3 – Francia. Laureato in Lettere Moderne alla Sapienza. Sue poesie inedite sono apparse su YAWP: giornale di letterature e filosofie (rivista online con la quale collabora), su Poetarum Silva e Patria Letteratura per i Quaderni Barbarici, su Il foglio Letterario, La tigre di carta, Atelier poesia, Argo, INVERSO POESIA e Nuova Ciminiera. Ha pubblicato articoli per Altri animali (Racconti edizioni) e per la rivista Euterpe un saggio breve su Sylvia Plath. Fotografa in analogico e intervista per TALASSA, bands del panorama indie, ha già lavorato con band come i Mòn, Gomma, Gigante, Ainè e Coma_Cose. Sempre nell’ambito della fotografia ha curato la mostra fotografica Elogio all’imperfezione nello spazio espositivo FONDAMENTA di INSIDE ART – rivista di arte contemporanea e cultura di livello nazionale.

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