Circa tre anni fa iniziavo un mio saggio breve di taglio stilistico sul precedente libro di Annino, Anatomie in fuga (Donzelli, 2016), notando che il verso “io non imito, Jack” poteva essere letto come metacommento all’opera anniniana presa per intero – l’indomita singolarità dell’autrice rende infatti difficile e probabilmente ozioso rintracciare puntuali influenze e convergenze, come già Maurizio Cucchi notava nella prefazione a quel volume. Ora, leggendo questo Le perle di Lochness (Arcipelago Itaca 2019) mi pare che l’allergia per l’imitazione sia diventata per Annino una questione più ampia e più ossessivamente martellante di quanto non mi fosse sembrata allora: non una semplice rivendicazione di differenza (e diffidenza) verso i codici dominanti delle patrie lettere, non una semplice presa di distanza dall’imitatio quale gesto conformistico, quanto piuttosto – e più radicalmente – una istintiva eppure consapevolmente assunta ribellione nei confronti della mimesi, cioè dell’imitazione della natura e del mondo esterno.

Di questa posizione esistenziale vengono sottolineati i risvolti gnoseologici in una modulazione aforistico-proverbiale che è un tratto caratterizzante della scrittura di Annino: in Mosche si legge infatti che “l’anima dell’uomo / ricopia tutto, ma scorda / spesso lo spirito che esiste / ovunque vaga” (p. 15; sottolineatura mia). Anima e spirito, usati sinonimicamente nella lingua comune, vengono scissi in due entità fra loro quasi polarizzate: l’anima, in quanto principio vitale, si nutre di imitazione: si parla infatti di riproduzione della specie (e replicatori sono definiti i geni, per esempio dal biologo evoluzionista Dawkins); la lingua e i comportamenti si apprendono imitando, almeno secondo molte scuole di pensiero empiriciste. La copiatura, nell’universo di Annino, è asservimento all’immanenza, ottusa diga eretta contro una gioiosa multipotenzialità che sta appena al di là delle nostre fin troppo collaudate abitudini percettive. L’emancipazione da tali meccanismi svilenti, e la conseguente trascendenza del materiale poetico, andrà pertanto cercata nello spirito che erra, nell’immaginazione anarchica. Andrà inteso in questi termini anche il gesto estremo del suicidio ne La caduta dell’angelo (pp. 30-31; sottolineatura mia):

 

Lui

allora nel vuoto giura, corpo

nel salto, che proprio

questa è l’ultima volta, per

il poco e tanto sonno degli altri, oh,

tempo calvo! Per farne

una firma in calce, non

imitando

più il Padre, i Principi, la Norma.

La firma come impronta lasciata dal corpo che cade, dunque; e, al tempo stesso, la firma come certificazione di potenza, di controllo demiurgico – Annino è in questo forse la più nietzchiana degli autori italiani contemporanei. Tuttavia questa attitudine non sfocia mai in senso di superiorità, in pose superomistiche: lo humour e la galleria di miti improbabili e a loro modo commoventi, di cui tratterò a breve, disinnescano infatti sul nascere questa potenziale deriva. Un altro paio di prelievi basteranno per convincere il lettore di quanto Annino difenda la sua visione in questo territorio: nella suite La vera tragedia dell’editore Fritz, l’editore afferma pomposamente “saremo padri di figli / a stampa, tutti uguali” (pp. 46-47; il corsivato è dell’originale). Si genera pertanto un cortocircuito fra mondo dei libri e attacco – qui non frontale, ma ironico, messo in bocca ad altri – nei confronti della riproducibilità nemica del talento (“il talento / è una palla”, leggiamo immediatamente prima, sempre in corsivato e sempre per bocca dell’editore). E “si copiano / i sentimenti” (p. 79) è il bellissimo e amaro epilogo della Sonata a Krzysztof, poesia in quattro movimenti che è fra i vertici del libro per quel senso di inerme intimità che la pervade, facendola sciogliere in passaggi pregni e nitidi: “Stanno insieme senza fiori, mai / un dono; amore umano più della / carne e pesante da alzare”.

Questo risentimento guardingo nei confronti dell’imitazione e della copiatura nelle sue varie forme non conduce tuttavia a una poesia di rarefatta astrazione verbale, di discorso scorporato, senza locutore, come invece avviene in molte scritture di ricerca contemporanee. Ironicamente, il risultato è piuttosto quello di un “superrealismo” (“più realisti del re”, scherza, ma fino a un certo punto, Annino a p. 33) saturato di presenza perché altrimenti “l’uomo / perde identità, senza moltiplicazione di piani” (p. 62); versi, per inciso, leggibili come un ulteriore manifesto di poetica, e che sembrano avvalorare l’appropriatezza, per la pratica poetica anniniana, di un descrittore mutuato dall’arte visiva come “cubismo sintetico”. Sul piano dell’espressione, tale saturazione di presenza si realizza mediante la figura dell’iperbole (e infatti “gli eufemismi sono sempre vigliacchi”, p. 38). Un esempio fra i molti possibili: “in due non facciamo un chicco / di sale”, dalla poesia Morti amanti (p. 81), con probabile allusione alla magrezza derivante dalla malattia – nello stesso giro di versi leggiamo infatti, in modulazione insolitamente cupa, “il niente della bilancia” e “nessuna/voce rompe questo calvario”. Sul piano del contenuto, la stessa saturazione di presenza si realizza mediante una galleria di figure mitiche o mitizzate, di prodigi devianti, abnormi. Nella lingua comune, “mostro” è ciò che devia dalla norma, eppure il monstrum latino valeva come “segno divino, prodigio” (etimo.it). Il Lochness eponimo del libro, “fuso com’è col cosmo” (p. 19) si aggiunge – così come Céline, Caino, Icaro, La Sfinge, Eva, il re Nudo, fra gli altri – al Pantheon pagano dell’autrice, dove svolge quella funzione di meraviglia e oltranza un tempo affidata, fra gli altri, al gatto Koko. Il mito in Annino non è archetipo comunitario, ma l’elevazione abbagliante di singolarità all’ennesima potenza. Singolarità vista come matrice di bellezza: con moto simmetrico e opposto ai fiori del male baudelairiani, Lochness partorisce le perle, il deviante smisurato scaturisce il conchiuso in sé (sulla compattezza e ricercatezza fonico-sintattiche dei testi di Annino ho già scritto in altra sede, e queste qualità non vengono certo meno in questo libro).

Al di là del sistematico straniamento formale e visivo messo in atto dai testi, quello che rende Annino insolita nel nostro panorama letterario è l’intersecarsi di mito e humour, di dialogismo straniato e di seria, per quanto umorale e asistematica, riflessione filosofica. Sul versante dello humour, si segnalano le figure di derivazione usate in chiave quasi tautologica (per es. “il giorno fa giornata”, “il giorno inizia col giornale”) nonché i numerosi scrambling di espressioni idiomatiche, quasi malapropismi sintattici che fanno da porta all’intuizione felice (“ridanno al monaco l’abito / che lo fa”, da l’abito non fa il monaco; “passa di frasca in frasca”, da passare di palo in frasca; l’endecasillabo “acqua / cheta che rovina ogni ponte”, da le acque chete rovinano i ponti). Oppure, più in generale, c’è un ricorso al grottesco-surreale a vocazione teatrale o teatralizzante, come nell’episodio dell’editore Fritz che scompare rapito dal granchio in cui egli stesso si è trasformato, lasciando in sua vece un iphon che “vibra solo”. Sul versante filosofico, si rammenta almeno l’attacco al dualismo cartesiano nella figura di Hanry che “dissocia idea da / carne” e, più sottilmente altrove, la formulazione simultanea “la mente / siede salda sul braccio”, a contraddire l’argomento cartesiano secondo la quale mente e corpo sono entità ontologicamente incompossibili.

Ogni pagina del libro offre sorprese e trovate diverse – farne uno spoglio completo sarebbe fuoriluogo in sede di recensione, e farebbe un torto al lettore che si avvicinasse per la prima volta a questa autrice. Mi limito pertanto, in conclusione, a segnalare le bellissime prose, spesso concentrate su individui nominati (per es. Rino, José Luis Pieto, Pina Bausch). Qui le difese dello straniamento verbale e delle rigide esigenze versali si abbassano e la maggiore distensione lascia spazio a un’abitabilità spesso commovente: non mancano accenti confessionali – ma di natura più analitica che melodrammatica –, come nell’incipit di Rino: “Di Rino mi piacevano solo gli occhi. Mi suscitavano un interesse piccolo, acuto, direi un disagio. Come se avessi un chiodo dentro una scarpa” (p. 28); nella stessa prosa, emerge anche la vena aforistica accennata a inizio recensione: “il fallito tira a indovinare e spera sempre, come un giocatore” (p. 29). Un altro affondo nutrito d’intuizione si trova in Pina Bausch, a p. 58, dove si legge di un uomo “tanto colto da non farcela a mettere in fila quattro parole sincere senza per questo morire di vergogna”; la capacità di cogliere un individuo nella sua nascosta interezza è rinvenibile nella bellissima descrizione dell’umore che José Luis Pieto emana (“tutto, nel suo corpo, ha la fosforescenza triste di una gazzosa”, p. 38) così come alla tenera ed estrosa autorappresentazione dell’onirico Congedo (“Io sono più mais che uomo, più timido che cortese, sono un dito, una parte, un occhio di quercia”, p. 91). Dialogo filosofico, ritratto umano, operetta morale e commedia dell’assurdo sono così le principali linee in fuga che con grazia, senza studiati equilibrismi, convergono e convivono nel centro della scrittura anniana.

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2 Comments

  1. Pietro Roversi 25/12/2019 at 11:59 pm

    Leggiamo qui i risultati dello straordinario incontro tra un Critico Letterario Fuoriclasse e un Poeta Che Surclassa ovvero cosa succede quando testi di intelligenza e sagacia trovano un lettore che ha i mezzi *tecnici* per recepirli. L’attenzione al testo, al suo contesto vanno qui a braccetto con la capacità di dirci perché quando leggiamo questo poeta vogliamo sempre rileggerlo. Il critico – che è più preparato di noi- rimane uno di noi anche lui alla presa con poesia che alla fin fine è godibile come tale – sia pure ora più comprensibilmente godibile una volta che ci sia stato spiegato cosa la rende unica. Che fortuna appartenere a questa contemporaneità – in cui c’è un poeta come Annino che mette nero su bianco quel di cui abbiamo bisogno. Le Perle di Loch Ness è un libro d’amore ma al contrario di Gemello Carnivoro (anche quello un libro d’amore) qui l’amato non minaccia e non soffoca – diventa complice, diventa specie in via d’estinzione assieme al poeta – e assieme si nascondono – come il mostro al fondo del lago. Il resto dell’umanità dà loro la caccia, fa loro la multa, li giudica, li etichetta: “Trecento triste, gli amici!” Come sempre Annino ci mette davanti alla scelta morale se subire il mondo per viltà o sfidarlo per proteggerne quel che di buono contiene. Castiglione questo imperativo morale lo capisce e lo spiega. Leggete, gente, leggete.

  2. Giampaolo D P 25/01/2020 at 10:41 am

    “Ogni pagina del libro offre sorprese e trovate diverse “.
    La sorpresa è sempre, in questa poeta, e la sua poesia: poesia che tratteggia e incita (invoca?) altro “mondo dei verbi” – come dice Roversi, essendo – insospettatamente(?) – un libro d’amore, questo e senza categorie se non quelle della poesia (arte) contemporanea il suo catalogo di inquietudini e prospettive.
    Grazie per questo interessantissimo testo.
    Saluti,
    Giampaolo