Nusquam est qui ubique est

Proseguiamo il discorso su Il boia stupendo di Andrea Peverelli e sulla nostra proposta di separazione ‘geografica’ all’interno dell’opera, individuando un limes ideale già tracciato nel precedente paragrafo, Oriente, laddove le figurazioni di spazi onirici e le inferenze di elementi archetipici suggerivano la presenza di una struttura difensiva – rimanendo legati al campo semantico militare – del soggetto poetante rispetto alla realtà propria. Senza il rischio di elaborare l’ennesima disquisizione sul conflitto tra io-lirico e autore, non riuscendo a rintracciare un’estromissione totale del soggetto nonostante il suo eclissarsi sotto varie proiezioni, il limite tra i due versanti est-ovest permane in accezione puramente spaziale; di conseguenza si rivelano il carattere passivo del soggetto lirico e la facoltà plasmante di una realtà mai stabile, ri-strutturata dal poeta per sperimentare differenti reazioni e percezioni. Si tratta dunque di sancire il predominio del setting sulla dimensione psicologica, laddove il soggetto è ricondotto da Peverelli a uno stato primitivo, instintuale, sul quale la poesia si configura come atto di sadismo da parte del poeta-creatore. Annullata la funzione del personaggio – ridotto allo stadio di animale nudo – diventa insostenibile ogni considerazione sul ruolo dell’io-lirico, se questi è maneggiato dall’autore come pedina di un gioco – la scrittura – e al poeta è sufficiente registrare ciò che vede per produrre in versi una meravigliosa rassegna di deliri.

Questa continua dislocazione del soggetto connette la poesia di Peverelli a una dimensione virtuale; di conseguenza non parleremo di ‘paesaggio’ della poesia ma di ‘scenario’, cioè della figurazione di una dimensione ‘parallela’ che non costituisce causa d’isolamento, poiché a denunciare uno stato di alienazione è piuttosto la realtà, estromessa dalla poesia (nella sezione ‘orientale’) a vantaggio di un immaginario delirante che priva il soggetto di un possibile habitat, essendo ripetutamente smistato in assurde peregrinazioni. Sfuggente e incollocabile, esso è dunque inesistente e la sua condizione rispecchia il motto senechiano «nusquam est qui ubique est» (chi è ovunque non è da nessuna parte). Il passaggio citato, pur decontestualizzato, chiarisce in una breve formula l’operazione stilistica di Peverelli; se la poesia non è che una delle possibili manifestazioni della creazione artistica, non è soltanto della poesia la pretesa di conoscenza del fatto umano, ma viene in soccorso al discorso critico ogni atto poietico, pur trattandosi sempre di proiezioni difettose giacché imperfetto è il loro artefice – senza tensioni di miglioramento, di ricongiungimenti a chicchessia, scongiurando polverose istanze idealistiche (oggi riesumate da alcuni patetici cabotin dello ‘s-pirito’).

Parte 2. Occidente

Quando Peverelli decide improvvisamente di abbattere le mura di confine e varcare i limiti di una nuova civiltà, inscenando una sorta di finto allunaggio, emerge ciò che il soggetto aveva escluso dal suo immaginario, ossia la sua realtà fattuale finora ignorata, nel tentativo di rimuoverla. Considerando la genesi dell’opera sappiamo che tra le due sezioni è intercorso un tempo non trascurabile e molto è cambiato nel metodo e nella scrittura di Peverelli; buon per il nostro autore, se possiamo individuare nell’odierna letteratura ‘usa e getta’ una riproposizione stantia, da parte di questi scrittori da classifica, di stilemi ormai consunti, canonizzati e riproposti da epigoni incredibilmente prolifici, appagati (ma soprattutto ‘pagati’) dall’orda soddisfatta dei propri seguaci, che null’altro chiedono se non di prolungare la propria vacanza intellettuale, di vivere eternamente la stagione balneare con le gonadi immerse negli oceanimari.

II nuovo scenario fa emergere una rinnovata maturità dell’autore, una consapevolezza che permette al soggetto di affrontare e riconoscere la realtà a seguito di un lungo periodo di isolamento; in questo senso l’idiosincrasia stilistica e tematica tra le due parti è solo apparente e rivela un rapporto di complementarietà che emerge in primis dalla loro opposizione; contrasto che è acuito da un senso di incertezza esistenziale che pervade l’intero impianto testuale, testimoniato dall’apparente disinteresse dell’autore nel delineare un minimo abbozzo di progetto narrativo. Fuggire l’identità per non accettare l’incessante svolgersi degli avvenimenti – poiché ogni evento produce effetti inaspettati e turbolenti – può condurre a forme di totale dissociazione, che in questo particolare caso può benissimo corrispondere a un rifugio nell’Oriente, identificato come realtà ribaltata e idealizzata; ma se la geografia del corpo-soggetto rimane comunque immutata, ossia se noi tentiamo di vivere l’Occidente da orientali, il rischio è di eludere il circostante, rinnegare l’esistenza di problematiche essenziali. Si tratterebbe insomma di non vivere più; ma come potrebbe mai perdonarsi un giovane che non ha dato nulla di sé, che non ha provato a sollecitare l’esistente, rintanato nel suo ruolo di consumatore e spettatore, in attesa degli avanzi offerti dalla storia?

Il momento decisivo di una meditazione non è l’alienazione ma il ritorno, la scoperta di verità inattendibili, il tentativo di rielaborazione a seguito di una folgorazione che non può limitarsi all’ideale romantico della ‘visione’; il risveglio dal sonno rivela traumaticamente la realtà ed è necessario abbandonare le illusioni, smaltirle come marcescenti ‘rifiuti’ della memoria: «nelle spaccature della terra gli dei si stanno lentamente scaricando/ piantando scorie nel vuoto si canta si canta», scrive Peverelli, dichiarando l’adesione a una nuova, vitale, poetica del putridume. Le magnificenti ambientazioni barocche della prima sezione sono sostituite dai simboli opachi della Milano urbana e assordante, benché ammutolita dall’autore, forse a causa di uno psicotico effetto larsen; nel silenzio della città si nasconde la minaccia di un cortocircuito psichico scatenato da figure emblematiche e familiari: «e quel cavallo che guarda ogni mattina il dorso della nostra cara sociopatia». Nulla di nuovo fin qui, considerando la lunga tradizione della poesia ‘urbana’; l’elemento da rilevare è piuttosto la ricerca di uno stile, in ogni caso, costantemente ‘alto’ che stride con la realtà desolante e sudicia della città, rielaborata attraverso gli evidenti influssi dei versi ‘milanesi’ di De Angelis e Pagliarani. A quest’ultimo Peverelli si accosta non tanto per le divagazioni descrittive, quanto per il nomadismo del soggetto in fuga, da cui emerge la predilezione di Peverelli per i bar e i locali notturni, eletti non semplicemente a non-luoghi ma a ‘santuari’ dello stordimento (che sia questa la riconciliazione tra oriente e occidente suggerita dal poeta?); proprio lo straripamento metrico di alcuni versi è la testimonianza di un disastro ‘naturale’, in-pagina, che l’autore, estromessosi dal ruolo di regia, osserva nella sua ineluttabilità.

La tensione oppositiva tra le esperienze poetiche delle due sezioni esaminate fa de Il boia stupendo un’operazione incompiuta e irrisolvibile nel suo impianto dualistico, anacronisticamente modernista nella sua assurdità, ma proprio per questo riuscita; esistono autori come Peverelli che attendono la dovuta considerazione, focolari preziosi che testimoniano una scrittura inconciliante, ardua, spigolosa, non ridotta a ostentazione o egocentrismo, ma esaltata a mestiere complicato, logorante, di costruzione e abbattimento della parola.

 

Da Il boia stupendo

 

amici, cari amici, ci ritroveremo spenti bulbi nella selva
stesi a terra a pugnalare altri amici con tappi di whiskey
tutti assenti davanti al supremo fallimento
tutti pari con l’inespresso
uno solo davanti a noi a guidare gli affogati col tamburo
gli autisti tornano all’inizio della strada, delicatissimi, con le mani nelle tasche, come a celebrare cose nascoste
e io conosco la loro iperbole suicida
una fucilata sarebbe meno storta

alle porte di Milano abbattere gli accessi ai nostri cuori era sigillare una tomba
e uno squillo atroce nella testa
un bucare più metropolitane alla volta con risa di guaio
quando si riusciva a sfondare io correvo davanti a portare nella bocca il vessillo-noia a sputarlo addosso alle corazze come una granata di corpi
io ero una visione corale di tutti coloro che in vita hanno avuto tenebrosi poligoniditiro sotto la lingua

alle porte di Milano la nostra demolizione era uno squillo
e l’eremo di qualcuno crollava
le vibrazioni unisone delle nostre solitudini facevano sbriciolare i muri e si cantava poi tutti assieme
ma la mia testa macina tutti i calcinacci
digerisce tutti i corpi delle piazze, ha un neon intermittente che si condanna al corpo degli altri
ma non al suo ma non al suo
io masticapietra in sedia a rotelle
al centro della distruzione
io calce bollente che ha il tuo aspetto
ero una visione corale
io un mostro di betoniere
giranoia
io veleno e speranza

mi fa prendere male
questa città protetta in un tramonto perpetuo che spompina i tetti dei palazzi, spande un rosso di labbra sulle punte sensibili delle nostre teste
è un richiedere attenzioni
che dura costante
ma al centocinquantunesimo tramonto mi si avvicina un’ombra
un buio puntuale mi guarda appeso a un ramo
rannicchiato lì sotto
si evidenzia che la mia volontà è poca cosa

oggi ho visto il mio boia. era bellissimo, ritto su un palazzo di ciocche nere
era una promessa di antico:
a picco e senza una seconda consolazione
era maestoso e mio.

mi ha molto ringraziato

si lancerà giù, sparirà inghiottito dal tuo fjallraven
ma gli farò una foto nel suono più penetrante delle grida
e tornerà sul palazzo
sulla spalla dove porto tutti i giorni la tracolla
alla fine non servirà neanche mandare in pezzi l’estate
prima che sia troppo tardi

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