da Annuario 2015
 

Gigante della poesia in dialetto, anzi della poesia senz’aggettivi, Belli fu paragonato a Balzac poiché nei suoi 2279 sonetti romaneschi rappresenta la comédie humaine della plebe di Roma, ma più gli si attaglia il paragone con Dante, perché nel suo commedione romanesco, triplo per mole, dà voce a un secolare universo antropologico nel momento del suo tramonto, come Dante aveva fatto con la civiltà medievale: il mondo popolare nell’ultima trincea dell’ancien régime, lo stato della Chiesa fra restaurazione e Quarantotto. Dantesca è la sua fame di realtà, ma anche l’impegno etico e meditativo con il quale questo cristiano illuminato e problematico, lettore di Leopardi e ammiratore di Manzoni, dà la parola ai mille ignoti Renzi e Lucie, trasteverini ignorati dalla Historia illustre, e costringe il lettore a interpretare, dietro le parole del personaggio, il pensiero dell’autore, e a formulare il proprio giudizio: cosa insomma da opera aperta di stupefacente modernità. Lungi dal ridursi al divertimento comico o sboccato, Belli con la sua poesia morde la realtà, commentando talora a caldo gli avvenimenti, come nei due sonetti che qui proponiamo, uno di taglio politico, uno di carattere etico-sociale, che toccano problemi ancora attuali: quello della faziosa contrapposizione fra schieramenti politici, tra la sinistra allora rappresentata dai liberali avversi al potere temporale della Chiesa e la destra dei plebei sanfedisti avversi ai framasoni borghesi, e la questione tuttora dibattuta della liceità e dignità del mestiere di prostituta. Li riporto con il corredo delle note d’autore.

Ora, Belli non parla quasi mai in prima persona, ma cede la parola a un personaggio del volgo. Nel primo sonetto un popolano vanta di aver partecipato con altri tosti alla clamorosa manifestazione a soste-gno del papa insidiato dai giacobini.

 
Uno mejjo dell’antro
 
Miodine,1 Checcaccio, Gurgumella,
Cacasangue, Dograzzia, Finocchietto,
Scanna, Bebberebbè, Roscio, Panzella,
Palagrossa, Codone, Merluzzetto,
 
Cacaritto, Ciosciò, Sgorgio, Trippella,
Rinzo, Sturbalaluna, Pidocchietto,
Puntattacchi, Fregnone, Gammardella,
Sciriàco, Lecchestrèfina, er Bojetto,
Manfredonio, Chichì, Chiappa, Ficozza,
Grillo, Chiodo, Tribuzzio, Spaccarapa,
Fregassecco, er ruffiano e Mastr’Ingozza.
 
Cuesti sò li cristiani, sora crapa,2
C’a Ssampietro3 stacconno la carrozza,
E sse portonno in priscissione er Papa.4
 
1 Io. 2 Signora capra, nome di spregio che si dà ad uomini e a donne. 3 Sulla piazza di S. Pietro. 4 Storia del giorno … [21] febbraio 1831.
 

Composto il 27 gennaio 1832, il sonetto si riferisce al fatto cui Belli accenna nell’ultima nota, incompleta ma da noi integrata. Il 21 febbraio 1831 Agostino Chigi dà conto nel suo diario della manifestazione popolare oggetto della nostra poesia: «Oggi verso le 21,30 italiane, essendosi penetrato che il Papa [Gregorio XVI] doveva uscire per recarsi alla visita della Chiesa di San Pietro in Vincoli, si è staccata dai Monti [rione popolare] una turba di gente, recando seco una bandiera pontificia e gridando: Viva il Papa, si è portata a San Pietro sulla piazza. Il Papa dopo averle dato la benedizione dalla finestra, pensava di non più sortire, ma essendo stato incoraggiato a farlo (si dice dal Card. Segretario di Stato), appena la carrozza è sboccata sulla piazza dalla parte di Santa Marta, la turba cresciuta enormemente, sino, per quanto si assicura, al numero di 3 o 4 mila persone del basso popolo, ha staccati i cavalli ed ha incominciato a tirarla a mano essendo molti saliti avanti, dietro e da tutte le parti della carrozza stessa, in mezzo alle più strepitose acclamazioni».

L’impresa è qui evocata da un protagonista, che con il Miodine dell’attacco si proclama condottiero di quei campioni, uno mejjo dell’antro. Li fa procedere in fila nelle prime tre strofe, presentandoli tutti, meno due, Checcaccio e Tribuzzio, con i loro soprannomi che molto dicono di loro — come quelli dei bravi manzoniani: Griso, Nibbio, Tiradritto, Grignapoco, Sfregiato. L’elenco sciorinato da questo spaccone (Miodine è forma antiquata ed enfatica del pronome di prima persona, sinonimo di un ‘io-super’ o ‘son chi sono’) sembra fare il verso a enumerazioni omeriche, ma al posto di Achille piè-veloce o Ulisse dal multiforme ingegno troviamo eroi della garganella, guerrieri panciuti o secchi come merluzzi, rossi-malpelo, stralunati, miserabili; e poi: campioni nel maneggio non di spade ma di ferri da calzolaio, sagrestani, ortolani, chiacchieroni, pidocchiosi, babbei, birbanti, e via dicendo compreso l’esilarante ‘Lecca-e-strofina’, cultore della mensa e dell’alcova. Sul plebeo, che ritrae la sua armata Brancaleone deforme e stracciona, per esaltarne poi l’eroica testimonianza di fedeltà al papa, esercita una palese ironia il poeta (altre volte pronto invece a satireggiare l’oltranza eversiva dei giacubbini futtuti).

Ma il messaggio di Belli non è mai semplice: infatti, se si esclude il beffardo insulto all’interlocutore del v. 12, la strofa finale, resa si-tatticamente solenne dall’inversione del v. 13, trasforma il sonetto in una lapide celebrativa dell’evento, sulla quale sono incisi i nomi degli eroi cristiani che contribuirono ad allontanare dallo Stato della Chiesa le minacce rivoluzionarie del 1831. Una lapide orale, s’intende, che ingigantisce l’evento nelle rievocazione memoriale (quasi un anno è passato tra l’episodio e la sua rievocazione), L’esteso elenco dei partecipanti a quel fatto memorabile, quasi dramatis personae, è d’altra parte uno stilema cólto di lunga tradizione. Adottato esemplarmente da Tasso nella Gerusalemme Liberata (I, 54-56), passò alla letteratura popolare, alla quale in questo e in altri testi della raccolta, si riallaccia Belli, e attraverso lui Pascarella in due sonetti appartenenti a collane percorse da accenti belliani, La serenata (II) e soprattutto Er morto de campagna (I): «C’erimo io, Peppetto de li Monti, / Checco Cacca, Gigetto Canipella… / Chi antro c’era?… L’oste a via Rasella, / Stefeno er tornitore a Tor de Conti, // e, me pare, er droghiere a li du’ Ponti / Cencio la Quaja, Zio de la Renella, / er Teoligo, Peppe… e la barella». Non è un caso che Carducci, vate della nuova Italia, celebrasse Pascarella più di Belli, per aver legato l’epopea popolare alla causa del Risorgimento. Siamo dunque costretti a chiederci; in questi versi Belli si diverte a trascrivere in chiave eroico-mica l’impresa di quei fanatici fattisi cavalli per trainare la carrozza papale? O insinua una forma di epica grandezza in questi popolani fedeli al papa-re e incompresi o disprezzati da quei rivoluzionari di cui Vincenzo Cuoco mostrò la visione astratta ed elitaria?

Sull’exploit sanfedista Belli ritorna nella poesia seguente, Er trionfo de la riliggione, composta lo stesso giorno nell’imminenza dell’anniversario dei moti liberali del 1831 e a ridosso della dura repressione di quelli del ’32, della quale si compiacciono due papisti in testi coevi, La guerra co cquelli bricconi e Li papalini. Sono tutti componimenti che si inseriscono nel filone della satira politica in dialetto praticata prevalentemente in Italia da poeti reazionari — con l’eccezione del piemontese Edoardo Calvo e del giovane Carlo Porta —, soprattutto a Roma, dove, alla fine del Settecento fu congregata l’imponente raccolta di componimenti antigiacobini in romanesco, ma anche in altri vernacoli e in lingua, del Misogallo romano. Anche da questo punto di vista Belli è spiazzante, poiché anziché optare per una parte, sa bersagliare col riso il fanatismo delle due parti.

*

Ed eccoci al secondo sonetto, steso il 3 marzo 1833 e ispirato a un fatto di cronaca «veramente accaduto in Roma», come segnala Belli nella prima nota:

 
La puttana abbrusciata1
 
Povera Chiapparella! Ah, nnun c’è ccaso:2
Tutte hanno da succède3 a sto paese.
Bruscià una donna coll’acqua de raso,4
Perchè jj’ha ddato un po’ de mar-francese!
 
Come disce?5 chì vva ppe le maese6
Viè la su’ vorta che cce bbatte er naso.
Se sa, st’affari vanno bbene un mese,
E in d’un giorno se resta perzuaso.7
 
Lei m’ha impestato: ebbè? cche scusa fiacca!
E llui poteva entracce in camisciola,8
Nun conosscenno9 a ffonno la patacca.10
 
Eppo’ adesso sarà la donna sola
A attaccà la pulenta che ss’attacca?
E a nnoi chì cce l’attacca? San Nicola?
 
1 Fatto veram.e accaduto in Roma per opera di quattro Settentriona-li. 2 Non c’è verso. 3 Succedere. 4 Acqua di ragia. 5 Come si dice? 6 Maggesi. 7 Ci s’imbatte. 8 Cioè con le debite cautele. 9 Conoscendo. 10 Vedi il Son.o … [La madre de le Sante, v. 6: sinonimo di ‘vagina’]
 

Dunque una prostituta è stata sfigurata con l’acido o con un liquido infiammabile da un cliente che la riteneva colpevole di averlo contagiato: riprovazione verso un gesto crudele, rinnovato anche da fatti di cronaca recenti, di cui è stata vittima una prostituta, la povera Chiapparella, soprannome disinvolto consono al prospero lato B e al mestiere della vittima, ma reso affettuoso dalla desinenza vezzeggiativa del personaggio parlante, un’empatica collega di lei. Per solidarietà professionale e per ignoranza medica, più che per furbizia, minimizza il movente della vendetta, la trasmissione di un po’ de marfrancese, che se fosse sifilide sarebbe a quel tempo incurabile. Non neutrale è pure il cliente con cui interloquisce, che tra le quartine giustifica l’aggressione, presto tacitato dall’espositrice, che rovescia la responsabilità del contagio sull’uomo, e nell’ultima strofa si fa paladina dell’intera categoria.

Come segnala Muscetta, una considerazione analoga faceva la Nanna del Dialogo di Pietro Aretino, II: «Poi che s’è trovato che nacque prima la gallina o l’uovo, che si trovarà anco se le puttane hanno attaccato il mal francioso agli uomini o gli uomini a le puttane». Ma dalla meretrice aretiniana, questa si distingue per il taglio del discorso, condotto con logica stringente, privo di volgarità, se si eccettua quella veniale di patacca, e amaramente umoristico nella terzina finale, in cui riproduce con un’efficace adnominatio il percorso circolare della malattia venerea. Delicata, a ben vedere, è anche l’allusione alla mancata ‘conoscenza a fondo’ della partner che doveva indurre l’incauto cliente a presentarsi da lei con la giacchetta, ovvero con il profilattico. Per suggerire alle donne un’astuzia, e non per difenderle, Giorgio Baffo dava loro questo consiglio, nella canzone sulla Quaresima: «Se a qualcuno de sti amanti / un regalo», quello gonorroico, «avè donà, / chiappè pur el tratto avanti, / e disè, che lù xe stà» (Raccolta, II, 194, vv. 53-56). Ma quanto dista dal divertimento libertino del patrizio veneziano il nostro sonetto! Spetta a Carlo Porta, le cui poesie giocarono un ruolo decisivo nella conversione di Belli dall’italiano al dialetto, dunque da una scrittura mediocre e imitativa a quella geniale e originale, aver sottratto la figura della prostituta al cliché ridanciano e maschilista della tradizione comico-bernesca per darci con  la Ninetta del Verzee una creatura di forte spessore umano, dolente e insieme dignitosa nel narrare la vicenda che l’ha costretta a battere il marciapiede, tradita dall’amore per un uomo indegno e costretta dal bisogno: ora, nelle molte prostitute che popolano i sonetti belliani, non troviamo mai squadernata la storia pregressa delle meretrici (lo spazio di 14 versi non consente del resto di sviluppare una vicenda che nel poemetto portiano occupa centinaia di versi), soprattutto, non emergono giustificazioni (amore sbagliato, povertà) quasi che le romane avessero scelto il meretricio per vocazione o diletto. E saremmo tentati di collegare la comprensione del Milanese e la severità del Romano allo spirito laico e democratico del primo e al moralismo cattolico del secondo. Ma in questo sonetto Belli ci spiazza, invitandoci a vedere e a giudicare il fenomeno dalla parte di lei, della donna esposta come la povera collega abbrusciata ai rischi anche mortali delle cosiddette ragazze di vita. E lascia, ancora un volta, al lettore la scelta di una responsabilità ermeneutica che risulta anche una scelta sociale e morale: deve ridere o inorridire? Deve scandalizzarsi contro chi esercita il più antico mestiere del mondo o sdegnarsi contro i clienti ipocriti o violenti?

Formidabile avvocatessa, la nostra prostituta difende la povera Chiapparella dalla obiezione del cliente con cui sta parlando (lui ha detto che chi va per terreni accidentati come le maggesi finisce per incespicare, lei replica al pregiudizio di chi considera redditizio il mestiere della prostituta, che in un giorno può perdere il guadagno di un anno); controbatte la scusa addotta dallo sfregiatore (il corsivo Lei m’ha impestato conferma che la donna sta riportando parole altrui); leva insomma la sua accorata protesta contro chi le è vicino e contro chi le è lontano; parla ai romani del 1833 e ai lettori del 2015: trasforma un fatto di cronaca nera in una meditazione universale.

 
 

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