Da Aprile di là (LietoColle – collana Pordenonelegge, 2016)

Arrivavi come un venticello
con valigie non per rimanere
ti stancavi affaticato
rimani ancora un poco
dicevo al sangue sulle braccia
posato come una Pietà.
Spegneva Dio con due dita
il lumicino brevissimo.
La morte diventava arietta,
cosa di fiato
alito di vento sul volto
immobile della statua
inclinata sul fondale
che sente le braccia sgretolarsi
il muschio in bocca
sul capo ammucchiarsi le foglie.
Ti rivedrò un giorno?
Ti poseranno vicino
ricorderai d’avermi conosciuto
sull’orlo dell’acqua
fiorisce un tremito
l’inizio di un ricamo infinito.
L’eterno dondolare delle madri
muove le onde.

*

Da una parte all’altra del vivere
giriamo come pazzi
condannati a sostenere il cielo
con tronchi di polvere.
La voliera fra nascita e morte
curva come un cerchio.
Nella grotta della mia natività
una luce imbianca paglia, scalda la roccia
lì vado spesso e piango
nulla è mai stato così vivo.
Guardo l’inizio spaccare
una faglia fra la madre e il buio
due torri storte lasciano
alla quasi notte
la precisione blu dello splendore.

*

Nei giorni c’erano cieli bellissimi
tutti con il piede appoggiato al muretto
varcavano confini, volavano schiaffi
uno sputo alla pioggia
l’esser soli di baci ne riceve tanti
ci vuole quella stranezza che girava
fra i tavoli di una discoteca
quel venire dentro le maniche
che solo il freddo conosce il brivido
ci vuole un cielo solo tuo
un cielo peso sulla spalla
con i suoi cementi, le pozze piccole
quel tramonto di gamba
grossa che gira con la palla intorno al sole
ci vuole quel briciolo di fuoco tuo
che chiede solo di cadere
come una cantilena nell’oscurità
e le calze il vento le lascia
per qualche minuto
dondolare vuote.

*

Vite curve sfogliano
i giorni uno per uno
cercano il ricordo custodito
dai pitoni del pianto
il diamante velenoso.
Vorrebbero, prima di morire,
pestare la testa degli addii
sentono ridere solo i pianeti.
Alcune digiunano
spaventano specchi di mare.
Il mondo non sa esattamente come salvarle.
Si gettano nel vuoto
quasi per non morire. Dopo laggiù
cavalcano disperate le loro vite
sui petti crepati delle madri
parole bianche coprono
corpi ancora caldi e volano
via là dietro le case
sbattendo la porta
con suoni di ghiaccio.
Solo l’aria è lì di spalle
inginocchiata.

*

Ci vorrebbe proprio tutto
il tempo di cucire un bottone.
Quel fermarsi
in quel punto della camicia
su e giù con l’ago
e il filo lungo che va in alto e scende.
Quel andare al di là e tornare, basterà?
Il viaggio di una madre
il puntino luminoso della sua mano
che dal cielo scende
e sale un filo che fra le dita
sembra attraversare niente.
Io ti avevo stretto la mano
nella panca della chiesa dei Servi
sentivo che piangevi
non sapevo come ricucire
il fiore sdraiato del tuo respiro
con tutte quelle radici al vento.

 

 

Francesca Serragnoli è nata a Bologna nel 1972, dove si è laureata in Lettere Moderne e in Scienze Religiose. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna fino al 2007. Collabora con il Centro Studi Sara Valesio. È perfezionanda presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. Ha pubblicato le raccolte Aprile di là (LietoColle – collana Pordenonelegge, 2016); Il fianco dove appoggiare un figlio (Raffaelli Ed. 2012); Il rubino del martedì (Raffaelli Ed., 2010).

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